Per un brevissimo periodo di tempo, sembrò che anche la critica musicale, in particolare quella che si dedicava al rock’n’roll e al suo selvatico lifestyle, potesse ambire a un ruolo importante nell’empireo letterario. Una corrente, elettrica, coraggiosa ed estemporanea, collegava Lester Bangs a Hunter S. Thompson, ma è durata giusto il tempo di una scintilla. È giusto così perché il rock’n’roll deve stare all’opposizione rispetto all’accademia e non ha bisogno di certificazioni per la sua sopravvivenza. Ecco, Blue Bottazzi è rimasto ancorato a quel fugace momento, senza alcuna velleità, né in un senso né nell’altro ma con un garbo che gli è proprio nel raccontare il rock’n’roll. Nel contesto, è questo il tratto più originale con cui viene osservata e descritta una storia già scandagliata più e più volte, ma con cui Blue Bottazzi si diverte a rileggere in una chiave singolarmente effervescente. Piuttosto che perdersi in voli pindarici, ha sempre cercato di spiegare perché preferiva un artista piuttosto che un altro, una canzone, un concerto. Non dovendo assoggettarsi alle regole redazionali e comportamentali legate alle collaborazioni giornalistiche, Blue Bottazzi si è preso tutte le libertà e in questo si è concesso un gusto innato per l’iperbole (“Leonard Cohen non morì, ascese al cielo”) e per l’eccesso (a proposito, nell’appendice c’è l’elenco delle 10 canzoni di Leonard Cohen e poi Blue Bottazzi ne mette in fila ben 32). I ritratti sono implacabili e tranchant, e forse è giusto così perché “l’artista non è una persona perbene”. E su questo Blue Bottazzi scrive anche che “per sua natura, l’arte non è mai di regime. L’arte non è allineata. Non è politicamente corretta. Non è conformista. Non è politica: il politico non è mai artista, anzi è l’antitesi dell’artista. Ogni regime, che fosse più o meno democratico o dittatoriale, ha sempre cercato di produrre arte di propaganda. E ha sempre fallito”. Ed era ora che qualcuno lo ricordasse. Memorabili le descrizioni degli incontri con Willy DeVille e consorti o l’intervista sfuggente con Iggy Pop, per non dire del riassunto dedicato a Warren Zevon che “beveva, si ubriacava, sul palco litigava con i musicisti, e correva in auto ubriaco per le strade di Los Angeles sventolando dal finestrino la Smith & Wesson della copertina del suo album. Era superstizioso, maniaco depressivo e ossessivo compulsivo. Quando al supermercato acquistava una bottiglia di vodka, sceglieva fra tutte quella fortunata”. Tra aneddoti, playlist, idee e opinioni sparse, la sua “storia brevissima del rock’n’roll” alla fine si prende cinquecento pagine e si può leggere un po’ alla volta, random, e comunque funziona lo stesso. Da un punto di vista strettamente discografico è legata al ventesimo secolo, con un immaginario che trova il suo cardine nell’epopea springsteeniana da Born To Run a The River, però Blue Bottazzi si concede volentieri tutte le divagazioni possibili e immaginabili, dal cinema al motociclismo, dalle modalità di ascolto alle geografie e ai calendari, dagli stati di alterazione ai ricordi dell’infanzia, rispecchiando la sana confusione promessa dal titolo, ma d’altra parte stiamo parlando di rock’n’roll, ed è credibile, se non altro per assonanza e per appartenenza. Non ha il tono degli iniziati o la presunta esclusività dei veterani (anche se in effetti sarebbe in cima alle graduatorie in entrambe le categorie): è piuttosto l’eterno adolescente che non ha mai imparato i tre accordi fondamentali della chitarra (e comunque avrebbe preferito la batteria, come si scopre nel capitolo specifico), ma si è inventato un modo tutto suo di vivere il rock’n’roll. Comprensivo, in fondo, anche di un concreto realismo (“Le cose che piacciono a me non se le caga più nessuno”) che però nulla toglie a questo Mucchio selvaggio, che è una perfetta emanazione di Blue Bottazzi e insieme il suo riassunto più completo: indipendente, autogestito, con convinzione, entusiasmo compreso.
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