Secondo Lester Bangs, l’heavy metal “è un treno espresso con destinazione il nulla”, ed è proprio lì che bisogna andare, se si vuole comprendere a fondo la natura di quel “figlio bastardo del rock’n’roll”, come lo definiva Lemmy dei Motörhead, un’autorità nel campo. L’heavy metal è stato maltrattato a lungo e forse è giusto così perché non è roba per educande e qualche danno bisogna metterlo in conto, ma è altrettanto doveroso e sacrosanto sottolineare, e qui lo si capisce molto bene, il suo carattere popolare, irruente e irriverente, che ha dato dignità a una moltitudine di outsider. Lo esprime senza mezzi termini Robb Flynn dei Machine Head che, per esempio, dice: “Eravamo degli emarginati. Ma nell’heavy metal abbiamo trovato una vera e propria comunità”. La sua è una delle innumerevoli voci che compongono quella che, di fatto, è una storia orale raccontata dai protagonisti, a partire proprio dall’opinione confermata nell’introduzione di Michael Weikath, quando scrive che all’inizio era “la musica preferita dei disadattati”. La formula organizzata da Daniele Follero e Luca Masperone è congeniale: non si tratta di un’enciclopedia, anche se la quantità di informazioni e la mole in sé del volume lo lascerebbe supporre, perché La storia di hard rock & heavy metal è svolta in modo fluido, senza l’ansia da prestazione della completezza o del dettaglio all’ultimo sangue, che poi lascia il tempo che trova. Per essere esaustivo, il quadro presuppone un’applicazione specialistica che gli autori pur possedendola, anche su un piano squisitamente tecnico, dissimulano nel racconto, tessendo una fitta trama di collegamenti in un lavoro di ampia portata, ma agile e scorrevole. Di sicuro un punto di partenza nell’associare (tra gli altri) Iron Maiden, Def Leppard, Krokus, Suicidal Tendencies o Dream Theatre: difficile collegarli perché, da un punto di vista stilistico, i gruppi che hanno fatto La storia di hard rock & heavy metal, spesso sono contrastanti, se non agli opposti. Un filo conduttore è evidente proprio in quel definirsi a parte, forse ancora più del punk, facendo dell’emarginazione la propria forza, infine. L’apparato iconografico contribuisce (e non poco) a rendere quest’idea, snocciolando tutto il colorito immaginario dell’heavy metal che, dai loghi dei gruppi alle copertine degli album ai costumi alle chitarre via via più elaborate e complicate, vanta un background di tutto rispetto, che merita di essere esplorato nel dettaglio. Tra l’altro non si fa mistero anche di abitudini malsane con risvolti tragici o delle disturbanti vicende dell’heavy metal norvegese, ma senza accenti scandalistici o sensazionali, piuttosto tenendo conto nell’insieme di tutte le deviazioni ai limiti del possibile. Ma è sempre la musica la protagonista e l’heavy metal si rivela molto più elastico e malleabile delle sue apparenze, tale da agganciarsi a forme sonore molto distanti e diverse. Se il motto “louder, faster, harder” (più rumoroso, più veloce, più duro) è una logica monolitica e destinata a durare in eterno (così come conferma Trent Reznor: “Credo che il rumore contenga qualcosa di musicale”) e se l’identità viene difesa a ogni buona occasione (come dice Kerry King degli Slayer: “Qualcuno dice che la musica degli Slayer non cambia mai e non si evolve. Fanculo, noi la suoniamo così perché ci piace”), la linea di demarcazione che vale per tutti è quella tracciata da Aaron Stainhope: “Ci piace creare musica autentica ed emotiva, piena di passione, rabbia, amore e desiderio collocati in un mondo intrappolato nella malinconia”. Quello, è in definitiva, il punto: l’heavy metal pur tenendo conto di tutte le sue metamorfosi resta una forma dal basso, spontanea, fragorosa, non edulcorata. È per tutti, ma non tutti lo capiscono. Diceva ancora David Lee Roth: “Il motivo per cui così tanti giornalisti non amano i Van Halen e apprezzano tanto Elvis Costello è che somigliano tutti a Elvis Costello”. C’è un fondo di verità in quello che dice il cantante dei Van Halen: per gli irremovibili snob e per gli intellettuali post-qualcosa non c’è posto sul treno. Bisogna guadagnarselo e meritarselo come ha fatto Pino Scotto che firmando la sua bella e sincera prefazione dice che con La storia di hard rock & heavy metal si possono attraversare “decenni di grande musica ad altissimo volume, cogliendone la potenza e la nobiltà”. E non bisogna essere necessariamente degli headbanger per capirlo.
Nessun commento:
Posta un commento