La perdita delle memoria è un incidente individuale, la ricostruzione è collettiva. Questo perché nella vita e nella carriera di Mauro Pagani la vocazione verso gli altri è sempre stata una predisposizione naturale e spontanea, legata in modo indissolubile alla sua concezione della musica e dell’arte. Per cui Nove vite e dieci blues è un memoir sui generis, dove Mario Pagani si concede la tentazione di rileggere il suo passato prossimo e remoto, ma trova la compagnia e la complicità di molti artisti, che fanno parte del bagaglio andato perso e che viene recuperato un passo alla volta. La dimensione famigliare, la scoperta della città, i primi tentativi di mettere la musica al centro di tutto lo conducono ben presto alla PFM. Entrare e uscire da un gruppo costituisce un esercizio esistenziale che va ben oltre l’attitudine professionale e questo Mauro Pagani lo racconta molto bene, con dovizia di particolari, senza rimpianti e/o tardive rimostranze. L’abbandono della Premiata, giusto per citare una svolta fondamentale, avviene per motivi umanissimi ma anche per seguire altre forme musicali, assecondando un’istintiva curiosità che lo porterà verso collaborazioni determinanti, da quella con Demetrio Stratos a quella con De André, la più nota e fortunata, fino alla fertile liaison con Massimo Ranieri. Gli sviluppi più significativi avvengono attorno alla musica, come non potrebbe essere diversamente, ma Mauro Pagani addensa anche molte cronache e storie italiane (e non) seguendo un tempo che si riverbera nella scrittura con un ritmo solido e un tono colloquiale, ma mai nostalgico. La rotta viene dettata dagli incontri, da quello con Salvatores che gli spalanca le porte del cinema, a quello, buon ultimo, con Guccini, quasi a completare una circumnavigazione della canzone d’autore. È proprio dentro queste molteplici forme di dialogo che la memoria si rigenera: trasformazioni, successi, fallimenti, scoperte diventano le note di viaggio che compongono le Nove vite e dieci blues, un racconto ricco di aneddoti, ma innestato su una trama solida, che Mauro Pagani sviluppa lasciando spazio al suo turbolento alter ego, il Fuggiasco e a dozzine di personaggi, il più delle volte ritratti con garbo perché, parafrasando le note di copertina del suo primo album solista, anche questo “non è un atto individuale, ma la conseguenza di un lavoro di gruppo”. Molto personali sono gli intervalli lirici, che, in filigrana, riportano Mauro Pagani su territori più conosciuti, quelli dei versi e delle canzoni, offrendo un’ulteriore prospettiva, ancora più intima, come si scopre in Da capo, a passo lieve: “Come ti senti? Come ti senti oggi? Come un avanzo in mezzo al niente, senza più voce, senza più memoria, senza contare niente? Come ti senti, ti senti come me”. Poi, un po’ per necessità, un po’ per passione, la ricostruzione del tempo perduto passa attraverso la lettura, che diventa a sua volta uno strumento per affrontare l’imprevisto e l’improbabile, e per ricollocare ogni cosa al posto giusto: “Ho anche ricominciato a leggere. Che meraviglia perdermi di nuovo tra le parole dopo anni nei quali il fare si era mangiato ogni minuto delle mie giornate”. Davanti al libro aperto, Mauro Pagani si ritrova con umiltà e stupore, lasciando infine un piccolo autoritratto, quasi una confessione spontanea: “A volte mi sono sentito stupefatto da tanta intelligenza e abilità di raccontare, a volte sollevato di non essere così vicino alla follia; consolato, in fondo, dall’essere un’anima semplice, capace di gioire senza troppe riserve”. Sincero.
domenica 16 ottobre 2022
lunedì 10 ottobre 2022
Andrea Berrini
Alle Metropoli d’Asia, Andrea Berrini ci arriva in punta di piedi, quasi per caso, seguendo una vocazione alla curiosità e alla scoperta che l’aveva portato prima in Africa, poi sul monte Ararat, un simbolico confine tra occidente e oriente. Già in quei passaggi Andrea Berrini non s’inventava novello Bruce Chatwin: la sua percezione da viaggiatore non si limita all’incanto e allo stupore, che comunque non mancano e hanno un ruolo specifico nell’affrontare le Metropoli d’Asia. Trasportarle nell’astrazione delle parole è a suo modo un altro tragitto perché, come dice ancora Andrea Berrini, “le metropoli, personaggi esse stesse, ho voluto raccontarle pescando storie un po’ a caso, sperando che le storie rendano conto anche dei temi. E che le differenze tra loro servano infine a esaltarne il tratto comune. Ero là, son passati pochi anni, questo era ciò che attraeva il mio sguardo, e ciò che ne racconto è la mia memoria”. Gli Sguardi su un altro futuro espressi dal sottotitolo maturano osservando i contrasti, le contraddizioni, le mutazioni e riconducendoli a un’esperienza personale, a una ricerca che non è soltanto geografica, o storica. Implica una metamorfosi più intima e profonda, alla quale non si può sfuggire. Succede già a Pechino, che è l’inizio e in qualche modo anche la fine, dove Andrea Berrini ammette che “lo sconosciuto di turno a volte sono io: una corsa in taxi è spesso un’avventura, pronuncio la mia destinazione sbagliando immancabilmente gli accenti in mandarino, e quindi pronuncio parole diverse da quelle che voglio”. Pechino è un labirinto: la censura, uno sviluppo economico feroce, la negazione della memoria, lo smog, l’evoluzione urbanistica e architettonica sono stranianti, tant’è che Andrea Berrini confessa di averla vissuta “come una lunga navigazione solitaria tra un approdo e l’altro”. A Kuala Lumpur, la sensazione è simile, ma con un’accelerazione che mette passato e futuro su un piano inclinato e ci si arriva con “una corsa cieca, come avere i paraocchi, buona introduzione a una città che già mi hanno descritto come una bolla di surmodernità, astratta da un paese fondamentalmente agricolo: quindi dai, restiamo dentro al videogioco, stiamo a vedere cosa succede”. Buon compagno di avventure è Brian Gomez, chitarrista, autore di Malesia Blues, poi imprenditore in una realtà fluttuante, ma non è un caso: una dopo l’altra, nelle Metropoli d’Asia si susseguono gli appuntamenti con editori e scrittori, che a volte volgono in amicizie, altre si rivelano momenti fugaci, di cui resta soltanto un alone di nostalgia. Da Hong Kong arrivano dispacci della rivolta degli ombrelli, le lotte per la libertà e la democrazia contro “l’armonia” del governo cinese, poi le contorsioni culturali di Singapore e Bombay, finché Andrea Berrini si convince che “valeva e vale la pena di guardarle da vicino, le città nuove dell’Asia, misurarle, imparare, preoccuparsene forse. Lasciarsene contagiare. Utilizzarle per riflettere su cosa siamo noi e ritrovare, visti da fuori, prospettiva. Un mondo che riproduce la modernità che noi abbiamo alle spalle, con tutto ciò che abbiamo perso, e che vagheggia un domani con cui anche noi dobbiamo fare i conti”. Si tratta di “immaginare la vita in un altrove” e il senso delle escursioni nelle Metropoli d’Asia è proprio questo, con tutti i limiti che Andrea Berrini sa riconoscere: sarà vero che la forma “sulla pagina è parziale perché non è che l’ultima tappa conclusa, e ci sarà un tempo per andare più in là”, ma intanto ha saputo renderle più vicine.
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