Quando Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia scriveva che “le Marche sono un plurale” offriva un codice di lettura che si adatta alla perfezione al carattere picaresco e effervescente della scrittura di Natalino Capriotti alias Brevevita Letters, che ha una chiara connotazione geografica e antropologica, ma nella sostanza è un potente grimaldello metaforico per ogni provincia che si rispetti. Il paese di Centobuchi è un po’ l’epicentro di un terremoto esistenziale proteiforme che si snoda attraverso le gesta di Vito Riga e altre persone che si possono ricondurre ad alcune limitate aspirazioni: il calcio (dilettantesco), il sesso (l’amore è fin troppo complicato) e le sostanze ricreative (mettiamola così). Attorno ai cinque principali protagonisti galleggia tutto un universo di personaggi che deambulano lungo le strade della provincia marchigiana. L’industria locale produce produce “mobiletti per cesso”, alcol e droghe sono rimedi contro la noia e nello stesso tempo trappole che la rilanciano all’infinito e la riproducono senza limiti. Il tempo pare fermarsi attorno a riti inarrestabili, a una metafisica imprevedibile (fintanto che arriva un fantasma a spiegare le trame inseguite da Vito Riga e altre persone) con la colonna sonora di Pixies, Pavement, Damien Jurado e Radiohead. Dietro il sarcasmo, però c’è la sensibilità per vite travolte dall’alienazione, dal disorientamento, dall’omologazione, dai dubbi e dall’eroina. La forma del racconto cambia spesso, come se non ci fosse un centro, ma solo un pulviscolo di emozioni. I personaggi svettano su una montagna di imprevedibilità e l’insieme è surreale, come un bar sport in acido, ma è anche un ago ipodermico infilato in profondità nelle infezioni della provincia, immobile e ipnotizzata da se stessa e dal suo vuoto. Natalino Capriotti alias Brevevita Letters usa un argot che è una corda tesa tra forme dialettali, colloquiali, flusso di coscienza e comicità, il più delle volte involontaria. Il linguaggio perfetto per i cinque dell’apocalisse quotidiana che si inseguono (e si perdono, e si ritrovano) in viaggi stralunati (fino in Polonia), come se fossero palline di un flipper di uno dei tanti bar, dove si svolgono gran parte dei loro piccoli e grandi drammi. I ritratti sono di volta in volta esilaranti, spietati, agrodolci, frizzanti come una birra o4, presenza onnipresente e dominante, insieme ad altri pasticci, che però non distoglie dall’apprendere che “le più grandi opere d’arte sono le persone. Producono le più grandi emozioni. Scorrono lente e inarrestabili come un fiume che si porta dietro tutto, compresa l’immondizia che sta scivolando dagli argini, giù, nelle acque paludose in cui annegheranno le storie”. La Quaglia, Morbidezza, Diaz e molti altri eroi vi verranno incontro spavaldi con tutta un’umanità dolente alle spalle, perché come dice Diaz “la televisione non è le persone” e “le persone sono un’altra cosa: Castorano, Offida, Ascoli, San Benedetto. Le persone le trovi su quei campi di pallacanestro di periferia. Quei parchi di cemento piatto dove i vecchi vanno a cantare l’ultimo blues. Quei posti chiarissimi dove il sole è grande. Così epico e leggendario che lo puoi quasi abbracciare. Los Angeles e Porto d’Ascoli possono essere la stessa cosa”. Prima di tutti, Vito Riga è protagonista di “un potente trip di allontanamento dalla vita umana”, che è l’introduzione, anche stilistica, a tutti gli altri outsider, come scrive Brevevita Letters, “sì perché sembrava che gli attimi immediatamente antecedenti la scomparsa fossero permeati da un grave tono di austerità e castigo. Sembrava appunto che in Italia, dove tutto è ridicolo, nel momento in cui sparisci devi iniziare a essere serio”. Morbidelli non è da meno con quei “quei quattro centimetri in più che fanno di un uomo un modo di essere. Di un tocco di palla una poesia”, ma un ruolo di rilievo tocca a Vespasiano che offre tutta una sua particolare apologia, molto adatta a sintetizzare l’essenza di Vito Riga e altre persone, quando dice: “Dobbiamo sempre ricordarci che ovunque nel mondo esiste tanta bellezza, e che esiste sempre qualcuno in grado di fabbricarla, questa bellezza, nei luoghi più inaspettati, con gli attrezzi più rudimentali, perfino in uno scantinato di cemento nella baraccopoli numero tre”. Rocambolesco, amaro, vitale.