Il legame tra Robert Johnson e il voodoo non è così immediato e scontato come può apparire in superficie. Certo, l’assonanza è naturale per via dell’alone misterioso e spiritato che condividono nelle radici del blues, ma Sara Bao è stata più che attenta a non cadere nelle trappole e negli abbagli insiti nei luoghi comuni. Con molta saggezza, ha chiarito fin dalle primissime pagine che il suo obiettivo principale era “evidenziare analogie importanti tra culture molto distanti tra loro con particolare attenzione all’ambito religioso e a quello di musicale. Robert Johnson vuol essere solo il punto di partenza e la guida di questo viaggio virtuale tra voodoo e blues”. È già un bel modo per procedere e la mappa tracciata da Sara Bao comprende, in effetti, un bel po’ di “incroci religiosi e musicali tra Africa, America e Italia” come recita il sottotitolo. Le rotte dall’Africa verso l’America ritratte nel variopinto impianto iconografico rendono l’idea delle correnti e delle direzioni in cui sono germogliati il voodoo e il blues. Lo sviluppo è delineato con una notevole ricchezza di particolari, a cui vale la pena aggiungere la precisazione di Ted Gioia in Delta Blues: “La musica africana ha cambiato la musica del nuovo mondo, ma il suo ruolo sociale fu allo stesso tempo trasformato. E questa metamorfosi fu ben più significativa di qualsiasi alterazione nel ritmo e nella melodia, nella forma e nel contenuto della musica. Tra le pratiche performative africane e quelle africano-americane possono essere tracciati numerosi paralleli identificando valori comuni, ma il musicista africano e il suo corrispondente nel nuovo mondo hanno ruoli sociali quasi opposti nelle rispettive società”. Questo lo annota con cura anche Sara Bao dicendo di aver cercato di “andare oltre la barriera della leggenda alimentata dal commercio, cercando di approfondire la parte storica e quella culturale di un popolo oppresso”. È lì che il blues e il voodoo condividono le complesse trame di identità composte in moltitudini, così come ricorda anche Jimmy Ragazzon nella simpatica postfazione, che parte da Robert Johnson per arrivare a Frank Zappa. Dipende anche dal fatto che “i popoli africani credono che l’utilità della musica, sia scientificamente sia come risultato della percezione storico-culturale, consista nel possesso dell’anima. Attraverso la musica si possono ricombinare due elementi distinti, cioè il singolo e il tutto”. Bisogna quindi parlare al plurale, anche quando Robert Johnson si avvia alla gloria e alla morte in perfetta solitudine perché “il rapporto che il bluesman stabilisce con la sua chitarra può essere associato alle ancestrali strutture formali legate alla coralità. Siccome il musicista non può più contare sulla tipica antifonalità della musica popolare, egli riproduce questo rapporto tra se stesso e la chitarra: il bluesman, quindi, porta con sé una stilizzazione della comunità”. È quello il momento in cui il mezzo diventa il messaggio, proprio perché “la musica, pur essendo impalpabile, sia riuscita a erodere i territori in cui si è insediata tramite i culti religiosi, a intaccare le tradizioni e a modificarle fino a insinuarsi anche nell’ambito laico, diventando per qualcuno, musica diabolica”. Nel susseguirsi di fede, religione, divinità e culti eccentrici (con una propaggine tutta italiana) infine viene inevitabilmente convocato il demonio in persona e il senso della sua presenza è ben spiegato da Sara Bao nelle conclusioni, e non si può svelare la sorpresa (anche se, tutto sommato, non è tanto una sorpresa). Di sicuro, come qualcuno ha fatto notare, se il peggiore tra i demoni viene rappresentato con la pelle bianca, un motivo ci sarà (eccome). Molto interessante anche la filigrana di referenze letterarie che scorre in sottofondo a Voodooblues. Un giusto corollario a una densissima ricerca che comprende, tra gli altri, Céline, Jean-Claude Izzo, Aldous Huxley, da Sherman Alexie ad Amiri Baraka, Pedro Pietri, Madison Smartt Bell, Ishmael Reed, John Steinbeck.
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