Cominciando in Un paesaggio con centrale nucleare nel maggio 1986 e finendo Verso la foce nello stesso mese, ma nel 1983, il viaggio di Gianni Celati va a ritroso nel tempo, come se la direzione lo rendesse arbitrario, relegandolo ad una delle tante variabili che determinano questi “racconti d’osservazione”. La partenza riporta alla primavera atomica di Černobyl’, con le radiazioni che sono una presenza costante e minacciosa nell’aria e nel “frigido” linguaggio dei notiziari. Curiosando attorno alla centrale di Caorso, prima tappa lungo le sponde del Po, Gianni Celati annota sui suoi quaderni la desolazione della pianura, appiattita dalle colture intensive e dalle costruzioni industriali, ma quando si addentra nei piccoli paesi che si affacciano sul fiume, sa riportarne l’atmosfera, un po’ desolata e un po’ confortevole. L’attitudine è quella discreta e silenziosa che Gianni Celati riassume così: “Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicini alla mostra morte; ossia, ci porta ad essere meno separati da noi stessi”. Ecco allora che scendendo Verso la foce “gli argini fanno venire in mente racconti di barcaioli, braccianti, ghiaiaroli, segantini, uomini di bosco e uomini di fiume. La strada pensile che li percorre permette di vedere insieme il fiume e i campi, e a volte altri argini detti comprensori, che in caso di piena servono ad isolare le zone allagate. Sotto gli argini, dalla parte del fiume o dall’altra, boschetti golenali che un tempo dovevano essere soprattutto di salici. Adesso dovunque pioppeti disposti su linee scalate (da qualunque parte si guardino si vedono linee d’alberi in diagonale), formano assieme agli argini un ordine spaziale che esiste solo da queste parti”. Il paesaggio costituisce un elemento primario e irrinunciabile, non soltanto perché lo sguardo di Gianni Celati si perde spesso e volentieri “là fuori”, seguendo l’idea che “un’intensa osservazione del mondo esterno ci rende meno apatici (più pazzi o più savi, più allegri o più disperati)”. Il percorso, disseminato da ostacoli (una macchina che non va, una piaga sul piede, il fango nelle rive), si fa più rarefatto mentre Verso la foce si avvia al suo sbocco sul mare, ma più movimentato dato che “anche l’immaginazione fa parte del paesaggio: lei ci mette in stato d’amore per qualcosa là fuori, ma più spesso è lei che ci mette in difesa con troppe paure; senza di lei non potremmo fare un solo passo, ma poi è lei che ci porta sempre non si sa dove. Ineliminabile dea che guida ogni sguardo, figura d’orizzonte, così sia”. A quel punto, di nuovo, “là fuori” diventa un refrain martellante che Gianni Celati dedica a quello che vede o non vede (“Mi sembra che là fuori, in ciò che si svolge, ci sia il miraggio d’una presenza commovente. Richiamo dello spazio aperto, viene da tutto ciò che appare, cresce o spunta là fuori”), tracciandone un profilo e forse anche un senso (“Le apparenze là fuori hanno un loro andamento ininterrotto che niente può disturbare: non hanno direzione, hanno solo continuità”), e infine riportando tutto all’alveo della scrittura (“Pretese delle parole, che pretendono di regolare i conti con quello che succede là fuori, di descriverlo e definirlo. Ma là fuori tutto si svolge non in questo o in quel modo, c’entra ben poco con ciò che dicono le parole. Il fiume qui sfocia in una distesa senza limiti, i colori si mescolano da tutte le parti: come descrivere?”). Per essere sicuro di rispondere Gianni Celati riporta persino le bestemmie, e sentendosi estraneo più che “straniero”, in terre dove si “respira un’aria di solitudine urbana”, scopre che “le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo nei nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo. Il mondo esterno ha bisogno che lo osserviamo e raccontiamo, per avere esistenza”. Le condizioni di luce riportano inevitabilmente alle fotografie dell’amico Luigi Ghirri, capace di trovare quelle sfumature e quei singolari profili anche “nello spazio sempre più spalancato della pianura senza punti di riferimento”. Gianni Celati applica e traduce lo stesso procedimento alle parole, cercando di metterle in un ordine plausibile, con la certezza che servano almeno a “chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”. Senza alcuna urgenza (nemmeno quella della scrittura), solo seguendo il tempo di un fiume, che va un po’ come vuole lui.
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