Sapere non basta dice uno dei titoli di Itaca e oltre ed è un primo vincolo per avvicinarsi alla dimensione di questi saggi di Claudio Magris che, pur non avendo una connotazione rigorosa e assecondando lo spirito omerico espresso dal titolo, si dipanano con una coerenza che va colta di passo in passo. Il segmento ideale da cui cominciare è un passaggio critico e lucidissimo dove Claudio Magris, che si sente “un passeggero clandestino nella storia” pare indicare una direzione, anche in modo piuttosto perentorio: “La vera arte moderna è negativa, mostra ciò che l’uomo non è e non può né deve essere, se non vuole venire integrato nel meccanismo del consumo culturale. L’arte deve ricordare che la promessa di felicità è stata tradita e che l’individuo non può conciliarsi con l’inumana condizione della sua esistenza. L’arte rappresenta l’impossibilità di vita vera nella vita falsa dominante, le mutilazioni che sconciano il volto della vita, la fungibilità e l’indifferenza cui è stato ridotto l’individuo”. Tra poesia (“La poesia moderna è spesso nostalgia della vita: non di una sua forma particolare e determinata di cui si lamenti la mancanza, o di qualche bene la cui privazione la renda dolorosa e infelice, ma nella vita in sé, come se essa stessa fosse assente”) e prosa, autobiografia e testimonianza, tra Il romanzo totale e Le celebrazioni impossibili, cogliendo Negli interstizi del tempo, o scegliendo tra Le grammatiche e la vita e La tragedia e l’incubo, l’amore e la solitudine, un’intera percezione del mondo è filtrata attraverso la griglia della letteratura. Per quanto nella sua essenza sia, tutto sommato, una raccolta di articoli, Itaca e oltre mette in luce l’applicazione pratica di Claudio Magris che si spinge a ricordare come “il singolo deve solo appropriarsi delle cose, servirsene senza permettere che nulla lo assoggetti: il suo pensiero è valido non in quanto pensiero, ossia conformazione a un modello di ragione universale, bensì in quanto suo, in quanto è qualcosa in cui egli si appropria e che egli, senza alcun dovere di fedeltà nemmeno alle sue stesse idee, può mutare o gettare via come gli pare. Ogni meta ideale, ogni fine, ogni causa superiore, ogni facoltà generale (lo spirito, la coscienza) ogni dover essere è un fantasma menzognero, perché ogni vita è perfetta così com’è”. Kafka e Flaubert, Thomas Mann e Robert Musil, Praga e Trieste, Borges e Melville, Ibsen e Jacobsen, Hegel e Marx, il tragico e il ridicolo, Vienna e Varsavia, Canetti, Cervantes, Salgari, Lukács, Jünger si susseguono senza un particolare ordine se non nella consapevolezza che “l’arte non giustifica la vita che le è stata sacrificata” e “la vita è costretta a cedere tutto allo scrivere, a cedergli soprattutto quell’indefinibile e indicibile lasciarsi vivere che costituisce l’anonimo e indifferente segreto della nostra esistenza: passeggiare per le strade e guardare l’arco di un androne, perdersi nel colore di una sera, addormentarsi”. La conclusione, inevitabilmente davanti al mare, che all’orizzonte sembra “il fondo trasparente della vita stessa, la promessa di tutto ciò che ci manca”, è, sì, a Itaca, ma soprattutto in quell’oltre. Il senso indefinito di quella destinazione, che è “nessun luogo” diventa la chiave di volta nella lettura di Claudio Magris quando spiega che “chi si trova ai margini della vita scrive qualcosa per alludere a qualche cosa d’altro, alla vita che gli balena fuggitiva e irreperibile, aggira e circuisce con parole ironiche e struggenti quell’assenza che è il suo destino e affida quelle parole a una bottiglia, perché non sa bene quale sia il pubblico per cui si scrive, quale sia il centro della sua periferia”. Da tenere a portata di mano.
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