Nell’apocalittico 1977, incastrati tra l’inamovibile tradizione delle osterie bolognesi, la repressione militaresca dei movimenti e la silente ortodossia, i Gaznevada fecero la loro prima apparizione. Una scheggia impazzita, una canzone frenetica e selvaggia (Mamma dammi la benza!), suoni stridenti e abrasivi, un pubblico annichilito. Pochi minuti, sufficienti per tracciare una linea di demarcazione e rendere obsoleto tutto ciò che c’era prima. Come molte delle inafferrabili variabili nella storia dei Gaznevada, quell’exploit avvenne con l’identità del Centro d’urlo metropolitano, elaborata definizione che raggruppava l’embrione di un gruppo di zingari felici che, come scrive Luca Frazzi, “mettevano la testa sopra il filo dell’acqua per sopravvivere all’ecatombe (pallottole, noia ed eroina) aggrappandosi ai Sex Pistols e ai Ramones. Curioso, no? Per tornare a respirare i figli del movimento si affidavano al disimpegno e alla provocazione fine a se stessa. E lo facevano in modo magistrale. Di loro si diceva che fossero il braccio armato musicale della coltissima Traumfabrik, in realtà i Gaz all’inizio era un tozzo, caciarone, magnifico gruppo punk. Poi divennero altro. Studiarono, maturarono, sperimentarono. Ma all’inizio erano questo, un gruppo punk, di intelligenza sopraffina e dalla mano pesante”. Con la stessa attitudine, i Gaznevada si raccontano, con l’aiuto di Oderso Rubini (che li produsse e li guidò tra i campi minati della discografia), dentro una trama frammentaria e per niente lineare, eppure fedele alle cronache, a partire dalla scelta del nome, pescato un po’ per caso e un po’ in un racconto di Raymond Chandler che descriveva “il gas di Nevada” come “una sostanza tossica dall’acre sapore di mandorla con la quale ingenui quanto loschi personaggi nell’omonimo stato americano sopprimono menti criminali e perverse”. La decisione di trasformarsi in Gaznevada avviene a Londra, l’approdo inevitabile in cerca dei Sex Pistols e degli Ultravox, degli Stranglers e degli XTC, nutrendosi di fish & chips e/o chicken & chips e respirando l’aria della rivolta, mentre l’Italia è rimasta ferma a vecchie cerimonie e rinnovati massacri. Ma l’epifania arriva prima grazie a un disco, Leave Home dei Ramones, che inaugurerà la nuova stagione dei Gaznevada. Un momento che Gianluca Galliani alias Nico Gamma o più semplicemente Gaz ricorda così, nella sua “novella-documento” Hystory And Hysteria: “Quella era roba veramente nuova, impressionante, un devastante muro di suono sparato ai 2000 all’ora, con un pezzo dietro l’altro, nessuno più lungo di tre minuti, anzi, per la precisione pochi superavano i due minuti e quasi tutti simili sebbene differenti... Senza fiato, senza tregua, senza lasciare respiro e tuttavia orecchiabili. Ti veniva, dopo un primissimo e stupito ascolto, una voglia irrefrenabile di ballarli... Ma con un ballo disorganizzato, duro, di guerra. Un sound ruvido, da garage, ma corposissimo, abrasivo e nel contempo melodico. Mai commerciale. Niente assoli, o al massimo due tre note sbattute qua e là. Pezzi semplici in fondo, ogni buon ragazzotto schitarrante o sbatacchiante avrebbe potuto facilmente suonarli. Geniali!”. I Gaznevada li suonarono a ripetizione, duri, isterici, nevrotici eppure capaci di intraprendere una via personale tra i grattacieli congelati di New York (Nevadagaz) e il pericoloso “radiodisturbo” (Telepornovisione) coltivando un linguaggio senza filtri, freddo, ipnotico e lampeggiante come un neon impazzito in una città con troppi nemici e con le palle rotte. Le vicende dei Gaznevada proseguiranno, in altre forme, con altre deviazioni, ma “solo dettagli”, comunque, scrive Gaz in conclusione. Dentro queste righe e in un pugno di canzoni incise all’inizio del 1979 c’è tutta l’urgenza di un gruppo impaziente, non allineato, incontrollabile, spiritato che ha sputato in faccia al futuro.
mercoledì 26 giugno 2019
venerdì 21 giugno 2019
Gian Luigi Piccioli
È il 1982, la nazionale italiana sta ancora arrancando nei mondiali di calcio in Spagna e “tutto il mondo sta traslocando” verso una realtà realtà trasfigurata e plasmata dallo schermo televisivo. Dalla Sala Due, centro nevralgico della TDN, un network privato dalle grandi ambizioni, Gigi Insolera e Marco Apudruen gestiscono le notizie come “tanti film diversi, e messi insieme a caso, a succedersi in una sorta di giudizio universale, allegrone e caotico”. L’obiettivo è raggiungere e superare i cento milioni di spettatori e scavalcare nel gradimento i canali pubblici che, grazie agli sceneggiati, godono del favore del pubblico. Insolera e Apudruen sono i deus ex machina della Sala Due: colleghi, amici, complici e quanto mai diversi. Insolera è uno scrittore imprigionato nelle tempistiche feroci della televisione, che offre uno sguardo continuo, impietoso, terrificante e asfissiante. Ad un certo punto ammette: “Sento sempre più l’urgenza di scrivere un romanzo, ma è ridicolo scrivere un romanzo quando si pensa che non c’è un minuto da perdere”. Apudruen è più pragmatico: deve comprare e vedere i servizi a tutte le latitudini e gestire una pletora di inviati che con le loro “telebaby” (uno dei tanti neologismo di Gian Luigi Piccioli) immortalano “l’età del caos”, dalla sorte dei desaparecidos in volo sull’oceano all’assassinio di un giudice. La prospettiva da Sala Due abbraccia l’interno pianeta, annulla le distanze nello spazio e le coordinate nel tempo: come scrive Simone Gambacorta nell’efficace presentazione “il tempo grande del titolo è un tempo che si è ingrandito, è il tempo di una mutazione in atto, di una frontiera che si sposta, come un perimetro che scoscende e sfuma nell’evoluzione continuata (e anche metamorfica) di se stesso. È un tempo ignoto che porta in sé altro. È il tempo della contendibilità dei duplicati audiovisivi del reale, è il tempo di un nuovo potere che si afferma”. Quando in Sala Due appare Marianna Estensi, fotografa chiamata a registrare le luci delle immagini, germoglia un triangolo imperfetto con Apudruen e Insolera. Bella, volitiva e spericolata, Marianna accende il Tempo grande, sollevando il sipario sull’altra grande protagonista, un Roma eccezionale, brulicante di vita, labirintica “da sempre, incompiuta, come un bel dolce lasciato a metà e demolito qua e là”. Quando non seguono il mondo e la storia attraverso i monitor, o non sono coinvolti nelle criptiche dinamiche aziendali della TDN, i tre protagonisti si avvicendano in un groviglio di vie e piazze e terrazze e palazzi che è lo specchio dell’ingarbugliata liaison. Le dimensioni di Roma sono tali che, come diceva William Fense Weaver, “il tempo è incredibile” e, infatti, scorre secondo scansioni relative e, per quanto riguarda Sala Due, tenendo conto che “con gli anni che sono passati in questi ultimi mesi, nessuno è oggi quello di ieri”. Quando Marianna viene spedita da compiere un’impresa destinata a modificare gli equilibri dell’audience, attraversando in moto la savana nella caldera di Ngorongoro, con la certezza che “ogni uomo confina con miliardi di altri uomini, oggi” e uno scoop dall’Africa (una delle grandi passioni di Gian Luigi Piccioli), Tempo grande lascia deflagrare tutte le sue contraddizioni e concentra nelle sue pagine quello che Italo Calvino intuiva nel 1983, appena un anno prima della sua pubblicazione: “Ogni processo di disgregazione dell’ordine del mondo è irreversibile, ma gli effetti vengono nascosti e ritardati dal pulviscolo dei grandi numeri che contiene possibilità praticamente illimitate di nuove simmetrie, combinazioni, appaiamenti”. Il contributo della florida scrittura di Gian Luigi Piccioli a rendere intellegibile la supremazia delle immagini è inestimabile. Grazie alla ricchezza dei giochi linguistici e alla divertita nonchalance nelle descrizioni (dai menù alle scene erotiche è tutto un fiorire di divagazioni) ci immerge e ci affonda in un milieu dove è impossibile non ricordare Baudrillard quando ci avvisava che “continuiamo ad accumulare, ad aggiungere, a rincarare la dose. E poiché non siamo più capaci di affrontare il potere simbolico dell’assenza, oggi siamo piombati nell’illusione contraria, quella disincantata della profusione, l’illusione moderna della proliferazione degli schermi e delle immagini”. Tanto che, nei paesaggi di Tempo grande, s’intravedono “vette irte di ripetitori, che una volta innalzavano croci”, ma soprattutto il benamato Insolera ci accompagna alla conclusione che “mentiamo senza motivo perché non possiamo fare a meno della verità che crediamo irraggiungibile. Mentiamo per uniformarci ad un modello superiore di esistenza... Per un insopprimibile bisogno di coerenza”. Tempo grande è un romanzo fosforescente, che è necessario rileggere e riscoprire, anche per le sue doti di preveggenza che ci aiutano, non poco, a capire dove siamo arrivati e da dove siamo partiti.
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