Le emozioni di bambini perduti nel tempo rivissute dentro un prisma che le proietta su più dimensioni. Gli habitat famigliari sezionati dal vivo, e senza esclusione di colpi. Le dinamiche dei rapporti affettivi scardinate all’improvviso. Scene da matrimoni, con vari livelli di difficoltà da superare, come se fossero dei videogame. Tutto scandito con una leggerezza, intesa nel senso che gli dava Italo Calvino, che sostiene Le magie di Ilaria Vajngerl e che convive e alimenta una tensione insolita, frutto di una scrittura tersa, densa, sincopata, che pare sostanzialmente istintiva, ma è lavorata di cesello. Forse ha ragione Piero, il protagonista di Grammatica: basta “capire le parole e metterle in gruppo”, ma c’è anche bisogno di capire cosa raccontare, e come raccontarlo, e Le magie si dispiegano con un’elegante rarefazione, con ogni singola frase soppesata, misurata, centellinata. Il registro è agrodolce e Ilaria Vajngerl conduce per mano in territori sfumati, sospesi tra una realtà provinciale dove “il mondo è già tutto pronto”, come scrive ancora in Grammatica, e “il lavoro è il lavoro”, un totem, oltre a una necessità inderogabile. L’ambiente naturale è una cornice, uno scenario ricorrente (“Ogni tanto vorrei chiedere al torrente se non abbia voglia di riavvolgersi, tornando indietro verso la montagna”) e l’unica possibile evasione da quel recinto è costituita da piccoli, furtivi momenti, che bisogna cogliere al volo. Non succede niente di speciale, ma la sorpresa è dietro l’angolo: c’è sempre quello scarto, o qualcosa che non combacia, una frattura che si palesa o un trauma latente che esplode. Non è molto (anche se c’è qualcuno che brucia vivo e arriva anche un’esplosione), ma, nell’accurata condivisione delle vite dei personaggi, gli aspetti conflittuali emergono nelle fenditure delle storie e tra un episodio e l’altro: la povertà, gli abusi, la violenza, il dolore, e un’inquietudine di fondo. Succede in continuazione e Ilaria Vajngerl scava proprio in quegli interstizi, tra un istante e l’altro: un lavoro svolto con cura, e con un profondo garbo per le vittime, e per il lettore. Si capisce allora quel velo di malinconia, perché, come si legge in Il primo uomo, “ci sono segreti che bisogna dimenticare, come le paure”. L’infanzia è il luogo da cui cominciare, e a cui tornare, come diceva García Lorca in Svolta, ed è la componente determinante che Le magie pongono in risalto a partire da Boomerang, sistemato (non a caso, si suppone) all’inizio della raccolta. L’idea delle sofferenze vissute e rivissute dai bambini si estende altrove lungo Le magie: pur nella loro brevità i racconti riescono a prestare un punto di vista oculato e preciso, evidentemente scaturito da una sensibilità per il dettaglio che Ilaria Vajngerl mostra di possedere quando deve descrivere “tutto quello che c’è dentro la parola casa”, la normalità (o presunta tale) in Le bestie, o quella sorta di ossimoro che è “la sconfitta migliore” in Gli invincibili. Ancora meglio è reso il rapporto tra padre e figlio in Andrea, ovvero l’attrito tra le contingenze del primo, in quella che viene chiamata “l’inconciliabilità delle loro vite” e le velleità artistiche del secondo, tra cui “un monologo di quaranta minuti in cui parlava di scelte davanti a un forno a microonde”. La forza che attraversa Le magie è proprio nel tatto con cui Ilaria Vajngerl accompagna i suoi personaggi condividendone le disavventure: un’osservatrice privilegiata, distaccata, ma partecipe nel seguire le storie che si incastrano una nell’altra, toccando toni sognanti e ironici, divertenti e crepuscolari, accorati e disturbanti, un po’ come la vita vera.
giovedì 14 ottobre 2021
lunedì 4 ottobre 2021
Manlio Sgalambro
La musica è diventata una nota piè di pagina. Non c’è incontro, aperitivo, sagra, festa, appuntamento, convegno che non abbia la sua brava colonna sonora, distribuita un po’ a caso, come uno dei tanti fenomeni di distrazione di massa, senza gusto e senza speranza. Una condizione che è frutto di una lunga e complessa involuzione: già nel 1994, al tempo della prima edizione di questo pungente pamphlet, Manlio Sgalambro aveva capito che “la musica ha raggiunto il suo stato attuale da quando poté contare sull’ascoltatore come strumento inconsapevole”. A distanza di quasi trent’anni, quell’intuizione e gran parte delle argomentazioni che ne discendono sono ancora più valide e sensate, oggi, che la musica impazza ovunque, a dispetto della sua utilità o della sua inutilità, dato che “le implicazioni metafisiche” a cui necessariamente dovrebbe essere legata “sembrano sparite davanti a quelle sociali”. Sgalambro è perentorio fin dal preambolo, che è indispensabile comprendere a fondo i suoi legittimi strali: “Contro la musica: il significato dunque dev’essere inteso. Non è una volgare polemica che qui s’innesca ma una delicata questione metafisica”. Su questa precisazione, i dotti discernimenti che seguono portano a spostare la musica in ambiti non usuali, dove viene vista in prospettiva dentro e contro il mondo e se stessa. In estrema sintesi, il filosofo separa musica, suono e ascolto, in cerca di un senso che ci è sfuggito: “Tutti i suoni sono stati uditi, tutte le sonorità ascoltate. Noi soggiaciamo a questa monumentale idiozia, la musica. Solo un nuovo ascolto ci può salvare. Si deve dunque rinnovare l’ascolto, fargli carico della sua essenza riflessa e poi tornare ad ascoltare. Nell’ascolto rinnovato si deve scorgere come deve essere ascoltata la musica. Il nuovo tipo d’ascoltatore, ascolta l’ascolto”. Questo succede perché secondo Sgalambro, “la musica dovrebbe farci rimpiangere che ci sia un mondo”, compito che per essere assolto prevede che “ogni opera deve assumersi il proprio naufragio, come sorte”. Le divagazioni, necessarie e frequenti, raccolgono Strawinsky, Wagner, Mahler, Bach, Cage, Bloch, Adorno, Kant, Haydn, Schopenauer in cerca degli elementi per aggiornare un’etica e un’estetica dell’ascolto come le uniche ancore a cui si può saldare la musica, perché resti viva. Si capisce che la paradossale natura del titolo non è soltanto messa lì per il piacere della provocazione. È l’inizio di un’espressione ironica che Sgalambro dispensa sornione sapendo che “l’importanza della forma nella filosofia attuale, o che in essa sia entrata di prepotenza la parodia, mostra che la filosofia ha imboccato la strada che porta alla canzonatura, ma per disperazione”. Questa deviazione dipende dal fatto che “la felicità da musica è una felicità ristagnata. Il trionfo odierno della musica purchessia indica il bisogno di felicità a zero costo”, e un po’ di eccentricità serve almeno quanto una boccata d’aria. Per districarsi nelle proiezioni di Manlio Sgalambro serve tornare indietro di qualche secolo, nel 1733, quando Voltaire diceva: “chi non sente nulla, non sopporta nulla”. Riconoscere le banalità di una musica diffusa e generica non è evidentemente sufficiente e serve “la critica dell’ascolto, che deve essere perseguita con altri mezzi, s’affaccia qui in modo improprio nel corso di un regolamento di conti con la musica, con l’assuefazione sociale ad essa”. Sgalambro pur con una prosa volubile ed effervescente, nel caso è molto specifico quando dice che “la nascita della musica dall’ascolto è un cattivo scherzo dopo che ci si promise chissà cosa. Si crea dunque musica per l’ascolto, laddove si dovrebbe creare solo per istituire un ordine dei suoni. Per realizzare una costruzione”. Questo è un passaggio definitivo ed è un po’ l’arcano per capire che “noi dobbiamo ascoltare musica a dispetto, pur sapendo che nessuna redenzione ne seguirà e che il mondo vince pure nei suoni”. È una rassegnazione vitale che trascende l’oggetto del contendere (la musica stessa), il suo destino (il mondo e la sua rappresentazione), le sue applicazioni pratiche, verso quell’elevazione che dovrebbe essere la sua collocazione ideale.
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