Quando i Rolling Stones esordivano, Cuba era ancora assediata. Era distante 2000 anni luce da casa, eppure è sempre stata lì e, per via dell’embargo americano, è rimasta “out of time”, anche se, visti i tempi, quella condizione non è per forza del tutto negativa. Si è conservata, se non altro: Cuba ha resistito ai conquistadores, alla mafia, al KGB e alla CIA e non ha accolto i Rolling Stones come liberatori o messia. Li ha accolti come i Rolling Stones che fuori dal tempo lo sono per definizione e, a modo loro, si sono conservati, perché il tempo l’hanno sempre dettato, costruito, sfidato, deciso. Gli hanno resistito e il 25 marzo 2016 sono atterrati al centro dei Caraibi. Il patrimonio musicale dell’isola è tale che la sfida, se non sei Ry Cooder (che guarda caso ha suonato con entrambi, Cuba e gli Stones) risulta impari. All’Avana, i Rolling Stones hanno fatto quello che fanno di solito, Casino Boogie, e quell’evento, giustamente definito “epocale” può essere un bel punto di partenza per capire la loro “macchina del tempo”, a cui Fabio Ruta ha dedicato il primo dei due volumi di un lavoro da vero appassionato. Sono, nelle rispettive forme, complementari nella ricostruzione del duraturo impero degli Stones, che sono molto più di una rock’n’roll band, per quanto di dimensioni planetarie. Costituiscono davvero un immaginario a parte, che comincia con la musica, ma attrae e assorbe qualsiasi cosa gli si avvicini. Fabio Ruta riesce a cogliere le sottili connessioni, non sempre così evidenti o visibili, tra la vita degli Stones e le cronache storiche salienti, non soltanto nel mondo anglosassone da cui provengono, ma anche in quello italiano in cui li abbiamo percepiti. Infatti Sessanta leccate di rock’n’roll nota bene come “sappiamo che le loro canzoni hanno attraversato il tempo e l’hanno descritto e raccontato dal loro personale punto di vista; in parte l’hanno assorbito attraversando paesi e città, presentandosi in modo differente negli anni. Gli Stones sono una navicella che ha solcato le onde del tempo: il tempo storico e sociale, quello dei comportamenti collettivi, quello di una cronaca urbana e legata agli avvenimenti di cui apprendiamo dai media ma anche e soprattutto il tempo vissuto e incarnato”. C’è un costante lavorio di accostamenti e parallelismi che asseconda le turbolenze dei Rolling Stones attraverso i tempi del tardo ventesimo secolo. È un assemblaggio meticoloso che prende nota delle biografie e dei dischi, degli show e degli aneddoti, con una particolare ricchezza di annessi e connessi fino a definire un’idea completa di quello che fanno gli Stones quando, come diceva John Mellencamp in Uh-Huh, “ti occupano il soggiorno” (e non se ne vanno più). Se tutto questo viene descritto in via teorica da Fabio Ruta, nel secondo volume di Sessanta leccate di rock’n’roll, si passa a una modalità più pratica con una congrua serie di interviste a giornalisti, scrittori, musicisti, collezionisti, tutta una variopinta umanità che racconta il proprio rapporto con gli Stones perché, come si legge nella breve introduzione, “la capacità di influenzare non solo la musica e altre forme d’arte ma, più in generale, il cambiamento culturale delle società e del loro tempo è una caratteristica che la band di Jagger e Richards incarna come pochissimi altri”. Interessante la testimonianza di Mauro Zambellini che, in viaggio sulla Costa Azzurra, finisce a Villefrenche alla ricerca del covo e dei fantasmi dell’apocalisse di Exile On Main Street ricorda: “La prima volta che andai in municipio a chiedere dove fosse Nellcote, trovai una gentile impiegata che aveva più o meno la mia età che mi chiese perché ero interessato a quel luogo. Io le domandai se c’era qualcuno con cui potevo parlare di quei giorni”. L’incontro ha qualcosa di simbolico per tutte le Sessanta leccate di rock’n’roll perché la signora rispose: “Anche a me piacciono i Rolling Stones ma la gente di qui, che li frequentava in quel periodo, è tutta morta”. Nessun dubbio: il tempo è sempre stato dalla parte degli Stones, e siamo ancora qui a parlarne.
martedì 29 novembre 2022
lunedì 7 novembre 2022
Roberto Gramiccia
La forma autobiografica ha un valore particolare se si asseconda quell’idea di Cesare Pavese, uno dei punti di riferimento più importanti per Roberto Gramiccia, per cui “succede questo fatto curioso: noi viviamo l’esser nostro più autentico quando ancora non sappiamo ammirare, cioè cogliere quel che ci accade. Le prime occhiate consapevoli le gettiamo su uno schema che ci viene dagli altri, dall’esterno; l’idea stessa di occhiata è qualcosa che accettiamo, che imitiamo dagli altri”. La notte più buia di sguardi ne registra parecchi, non tutti innocenti, ma sempre appassionati: Gramiccia è un osservatore acuto e partecipe che, pur abbondando di riferimenti culturali e filosofici che comprendono, tra gli altri, Spinoza, Platone, Leopardi, Gramsci, Camus e Tenco, si concede con naturalezza, senza la pretesa di ergersi su un piedistallo, ma piuttosto di raccontare una storia (la sua) che si avvolge attorno ai percorsi personali, all’impegno politico, alla medicina (la sua professione), all’arte e alla scrittura. Il passato, prossimo e remoto, diventa uno specchio che va oltre all’immagine riflessa e include un orizzonte molto più ampio. Le testimonianze che riportano alle “cronache di una generazione” sono fatte di aneddoti, di racconti spiccioli, di ricostruzioni che nel comporre La notte più buia, si distinguono come scrive Fabrizio Catalano nella prefazione, in “due tipi di verità: quella personale, che concerne le vicende private del protagonista, amori, rivelazioni, interessi, paure, sconforti, che suscita immediata empatia, in cui ognuno potrà riconoscere vicende parallele nella propria esistenza; e quella globale, che non fa mai da sfondo, e che sovente è l’autentico motore della narrazione”. I due aspetti non sono mai distinti, anzi si intrecciano e si sovrappongono in continuazione: gli eventi che si incuneano nell’autobiografia di Roberto Gramiccia (l’allunaggio del 1969 e il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro nel 1978, per esempio) hanno un valore speciale e in qualche modo definitivo nell’immaginario collettivo. È vero, come dice Gramiccia che “i tempi storici non sono mai quelli che vorremmo”, ma d’altra parte non si può nemmeno fuggire alla realtà. Per contrasto, La notte più buia è così affollata di piccoli e significativi particolari che si sommano uno dopo l’altro: gli espedienti dell’infanzia, i rapporti famigliari, la scoperta del sesso e dell’amore, e persino il poker. Tutto raccontato con una particolare verve che non manca di sottolineare le due passioni predominanti, la politica e l’arte. Il costante impegno politico che si fa notare anche nelle critiche (soprattutto) alla gestione del servizio sanitario nazionale e per estensione al tutto il welfare negli ultimi anni dove un concetto particolarmente caro a Gramiccia, quello della fragilità viene affrontanto con rara ed esplicita chiarezza. La dedizione per l’arte contemporanea e più in generale per la cultura affiora negli incontri con gli artisti e i protagonisti, e sono particolarmente toccanti quelli con Jannis Kounellis e Mario Monicelli, sullo sfondo costante di una città, Roma, ritratta dagli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, con le macerie ancora per le strade, fino momenti più frenetici e sfavillanti che la rendono La notte più buia un racconto sincero e movimentato.
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