Per i passeur sui rilievi dell’entroterra ligure, il tempo scivola come la brezza sulle rocce, impalpabile e costante. L’attesa di un varco, la speranza di una destinazione, i ritagli minuziosi di un paesaggio avaro, ruvido, contorto come gli ulivi, spiazzato dalla luce e inasprito dal sale mettono i personaggi di Vento largo nella condizione di lasciare le colture per dedicarsi ad accompagnare “nomadi e viandanti” oltre la frontiera con la Francia. Condividere la clandestinità per guadagnarsi da vivere diventa una resa perché, come Francesco Biamonti lascia dire ai suoi passeur, “è destino di noi esseri deboli, di noi uomini cambiare strada. Sotterfugi per vivere”. Il compenso è relativo, minuscolo, sproporzionato rispetto all’impegno di trovare la sicurezza di un varco attraverso sentieri brulli e impervi e anche nei confronti di un’etica solida e condivisa (“Non abbiamo mai lasciato nessuno di qua del confine”), per quanto fondata soltanto sulla parola. Se c’è una certezza, in questi passaggi notturni e segreti, viene soltanto da una conoscenza del territorio che va ben oltre i segni sulle mappe. Se la speranza è sempre che “siano un po’ di meno e un po’ diversi i prossimi pellegrini”, la forma concreta che accarezza il Vento largo sono le curve delle colline, dove persino le abitazioni e i vicoli sono incastrati nell’arenaria, e avvolti in un alveo naturale e selvatico. Di orizzonti ne rimangono due, perpendicolari come il Vento largo rispetto alla rotta tracciata. Il primo, vicino, oltre i crinali, resta una meta invisibile che i passeur conoscono e temono e che i fuggitivi anelano, con l’incoscienza di chi non ha nient’altro da perdere, al punto che l’esilio appare come una fortuna. L’altro è un abbaglio distante, infinito, scintillante. Lo spettacolo del mare visto dalla terra rimane un inganno. Francesco Biamonti l’ha identificato con scrupolosa attenzione nella dissertazione citata da Sergio Buonadonna in Finestra sul Mediterraneo: “A guardarlo dalle nostre colline, della Liguria occidentale, sale all’orizzonte come un immenso edificio di luce. Fa sognare partenze, voli supremi. A volte è bianco e fa l’effetto di una nuvola; più spesso è di un azzurro che sconfina; se il vento lo ghermisce appare solcato di cammini, specie la sera. Ma in fondo che mare è? A un’apertura, a una libertà metafisica non corrisponde una realtà geografica: è quasi un lago e le sue rive sono state spesso insanguinate e lo sono ancora adesso”. La voce di Francesco Biamonti è la risposta ai contrasti attraversati dal Vento largo: le parole limate una per una, gli accenti che riflettono più il ritmo umano che quello delle frasi, un glossario di vocaboli grezzi e spontanei, uno scenario calcareo di rovina e abbandono, mitigato dalla dolcezza del racconto. La vocazione, in Vento largo più che altrove, è indirizzata ad “aiutare le cose ad esistere, far sì che s’instauri fra gli uomini e le cose un dialogo”. In questo ibrido, tra una natura impraticabile e una civiltà al minimo storico, la forma delle immagini attinge alla pittura, alla poesia, al dialetto e alla musica, e le volge in uno stile lirico, riflessivo, raffinato eppure molto acuto nel sottolineare i conflitti, e gli incontri. È la lingua delle Creuza de ma di Fabrizio De André, il sapore agrodolce dell’entroterra ligure al confine con la Francia, una frontiera che, in Vento largo, unisce, più che dividere.
Nessun commento:
Posta un commento