Bisogna ammettere che Diana Palmieri, la protagonista che interpreta a modo suo Il paradosso di Ippocrate, ha un’aura insopportabile. È avvenente, è la prima della classe, è la ragazza che sapeva con estrema chiarezza dove voleva arrivare, e ci è arrivata. Ascolta solo musica classica, ma la sua vera passione sono i valori tradizionali: la famiglia, il lavoro (è una pediatra), fine dell’elenco. Quando scopre un biglietto con intenti predatori che risale agli anni dell’università, decide di indagare, ma ben presto si ritrova coinvolta in un’intricatissima congiura di potere all’interno dell’industria farmaceutica, dove, come è noto, lo spirito della ricerca e del servizio è in costante attrito con quello del profitto. Con Il paradosso di Ippocrate non c’è da stare tranquilli: le mutazioni sono dietro l’angolo, niente è definitivo, solido, concreto. La realtà, agli occhi dei suoi protagonisti, anche di quelli di Diana Palmieri, non è mai così come appare, ma piuttosto come se la immaginano nelle loro ambizioni. Questo vale soprattutto per i manager, qui particolarmente infidi, che a vario titolo si contendono i posti di comando, con sotterfugi e segreti coltivati con estrema cura. L’ingarbugliato gioco di ruolo sposta il livello dal romanzo, con una spinta moralista che ha pure una sua logica, dove il termine di paragone non è soltanto l’onnipresente e onnipotente “mercato”. Il paradosso di Ippocrate mostra, senza troppe esitazioni, che l’impalcatura economica non è retta, come tutti gli indicatori dovrebbero sostenere, da rigorose posizioni analitiche, ma da volubili espressioni caratteriali, mentre il danno “viene dalla cattiva amministrazione della cosa pubblica, dalle aziende senza scrupoli che lucrano sulla nostra missione, dagli imbroglioni che non hanno nessuna remora a mettere in pericolo la salute e la vita delle persone per il loro guadagno”. Niente da eccepire e, in questo, la vera valuta di scambio è la fiducia ed è qui che si affronta il livello più approfondito, perché Il paradosso di Ippocrate tende ad aggirare gli schemi e a rivelarsi come una matrioska che, un colpo di scena dopo l’altro, plasma i personaggi. La trasformazione tocca Diana quanto il suo volitivo alter ego, Donita, le maschere cedono in rapida sequenza via via che i contorni noir, compresi due omicidi, avvolgono Il paradosso di Ippocrate. La metamorfosi più evidente la subisce proprio Diana Palmieri che, senza volerlo, si ritrova al centro di un’asfissiante nebulosa di forme di potere, diventando a sua volta protagonista degli eventi. I cambiamenti sono radicali, il complotto non diventa mai chiaro (e questo è forse il significato ultimo del romanzo di Nicola Gervasini) e i nodi costituiscono il senso della trama ed è impossibile svelare di più. Molto si svolge al Superunknown, un locale che prende il nome da un album dei Soundgarden e così Nicola Gervasini passa dagli anni ottanta di Musical 80, il precedente romanzo, agli anni novanta però visti attraverso una lente deformata, quella dei Nirvana, del grunge e dei suoi accoliti. Il paradosso di Ippocrate è aperto, in ogni suo capitolo, da una citazione di una canzone di quel periodo, forse a ricordare cosa paghiamo per “le nostre moderne esigenze”, come cantavano i Pearl Jam.
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