L’imprevisto è quello che è: succede, e non ha bisogno di essere collocato, incorniciato, rivisto. Spalanca lo sguardo sull’incognita che La vita perfetta è obbligata ad affrontare ed è così che Valerio Bricca, che è anche un pittore, introduce nella nuova dimensione, labirintica, ipnotica, inaugurata dall’incidente nella vita di Riccardo Gulli che in una normale giornata investe una ragazza, Viola. Riccardo Gulli sa districarsi tra Marc Chagall, Oscar Wilde, Giotto e Dante ed è “un famoso critico di quadri che parla in televisione”, ma in quel quel preciso istante tutti i dettagli di Una vita perfetta, la cucina, l’amarone, il successo collassano e, in un attimo, diventano sommariamente inutili. La vita perfetta viene travolta: anche se Riccardo Gulli è innocente, è turbato, come si può immaginare, e l’unica salvezza a cui aggrapparsi resta l’arte, e la meraviglia che rappresenta. Non c’è altro, e tutto diventa accessorio, limitato al momento. Lei è lì, in un letto d’ospedale, ma il protagonista la vede come una natura morta con i contorni sfumati, che va guardata in prospettiva come il David di Michelangelo. Riccardo Gulli si ritrova così a scegliere nel buio, non solo metaforico, per restare agganciato alla realtà, mentre viene divorato dalla sensazione di aver distrutto una vita (per quanto, va ricordato, senza colpa). Proprio lui che ha dedicato tutta l’esistenza a cercare e a descrivere i frutti della creazione artistica. Valerio Bricca incrocia la bellezza e il dolore in un’atmosfera plumbea e notturna, fatta di imprevedibili complicità e un devastante senso di impotenza. Non cerca particolari strutture narrative, non si dedica a ingegnose costruzioni formali: è un osservatore appassionato e scrupoloso della storia così come si svolge e, sapendo che “la bellezza del particolare e dell’insieme diventano una sola emozione”, si adopera nell’illustrarla proprio come Riccardo Gulli prepara il risotto: pochi ingredienti, giusti e misurati che gli consentono di sviluppare l’attrito tra i personaggi (compresi ruoli secondari come quello dell’infermiere Domenico De Napoli alias Mimmo che, a tutti gli effetti, è un traghettatore) e alimentare con le scintille un nucleo luminoso che si svolge nella continua introspezione del protagonista e si sublima in una dialogo parziale con la ragazza in coma, una situazione ideale per una cornice teatrale, se non proprio pittorica. In effetti, la visione di Una vita perfetta rientra nel canone come lo descriveva John Berger: “Nessun contorno, nessun vuoto, nessuna asperità nei contorni tradisce un’esitazione nell’intensità della pittura. L’atto del dipingere è inseparabile dalla sofferenza patita. Poiché nessuna parte del corpo sfugge al dolore, la pittura non può in nessun punto cedere in precisione. La causa del dolore è irrilevante, ciò che conta è la fedeltà della pittura. Questa fedeltà nasceva dall’empatia d’amore”. Se c’è una redenzione nella vita, che sia perfetta o meno, va cercata nella visione artistica, l’unica risposta nei confronti dell’angoscia e della sofferenza. Questo Valerio Bricca non lo dice e (per fortuna) non lo spiega, ma lo lascia scoprire a chi si inoltra in Una vita perfetta, che si legge in una sera, e si ritrova a vedere e a sentire il tormento di chi ha vissuto in cerca della bellezza e deve fare i conti con l’imprevedibile caos della realtà. Si parlerà “di felicità, ma anche di tragedie e di dolore, di rabbia e ribellione, insomma della vita” ed è citato a proposito, Thomas Mann quando dice che “la bellezza trafigge”. È un richiamo a doppio taglio: il contrasto di Una vita perfetta è potente ed emette riflessi fluorescenti, ma è anche un insieme coerente, con un tono e una logica molto precisi e fino al finale, che è adeguato, ma va scoperto da soli.
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