Italo Calvino spiegava così la trama dell’esordio di Francesco Biamonti: “Come seguendo una tacita morale libertaria, il protagonista si rifiuta di giudicare il modo in cui ogni individuo spende la propria vita; ma vorrebbe comprendere cos’è quella spinta di autodistruzione che si sente nell’aria; e i suoi andirivieni lo portano a indagare sulla morte misteriosa d’un giovane. Quattro personaggi di donne, ognuna con una sua ossessione, incrociano i suoi passi; ma le solitudini sommandosi non s’annullano”. Nell’aspro entroterra di Ponente, a ridosso del confine con la Francia, un giovane, Jean-Pierre, viene trovato morto, sotto uno spuntone di roccia da cui probabilmente è caduto. Per la rarefatta e dispersa comunità della valle ligure, che asseconda i ritmi delle stagioni e le partenze sul mare e dove ogni cosa “sapeva di dignitosa miseria”, è una sferzata di dolore che lascia tutti avvolti in un cupo sudario di silenzio e di frasi lasciate sospese nel vento. È vero che “una parte di gioventù si è sempre perduta”, ma la fine di Pierre spalanca le porte a un’inquietudine imprevista. Gregorio, marinaio insofferente e in attesa di destinazione, pur sapendo che “no, non era l’uomo adatto a condurre un’indagine”, si trova a collezionare scaglie di conversazioni e impressioni, tra un bicchiere di vino e un “arsenale dei sogni”. Parla con Edoardo che, chissà, forse è lo stesso di Attesa sul mare, segue Ester sui sentieri di sassi e osserva il dolore di Martine Haillier, la madre di Jean-Pierre, chiedendosi se fosse “anche lei attratta da una vertigine?”. Quel dubbio è un passo obbligato, perché “sparire, tentazione che si era sempre accompagnata alla vita e sempre accarezzata da qualche giovane disperato, era un processo solitario” e nei dintorni di Avrigue hanno trovato rifugio molti randagi e “toxicos” che negli anfratti delle montagne e nei resti dei bunker della frontiera conducono un’esistenza marginale e passiva. Il destino di Jean-Pierre è maturato in quel milieu, tra l’arenarsi di esistenze raminghe e il silenzio rassegnato dei villaggi incastrati tra le rocce. L’unica alternativa è il mare, il cui riflesso lontano ha le pieghe di un miraggio che, quando “il passato all’improvviso si chiuse nella pace”, per Gregorio diventa un orizzonte inevitabile. La lingua di Francesco Biamonti è una scorza ruvida e contagiosa, costruita con un ritmo fatto di lunghi intervalli dove s’insinua il paesaggio degli ulivi, una presenza costante che, di fatto, delinea L’angelo di Avrigue in tutto il suo scorrimento. Le pennellate di Biamonti sono tratteggi impressionisti, ispirati dai pittori provenzali (“La collina era irruvidita nel lungo tramonto. La notte non riusciva a toccare gli ulivi soprani trasformati in vaste farfalle nere. Era arrivata una di quelle tristissime sere in cui sul mare si sentiva lo stridio del ferrame”) e conditi con un vocabolario gergale, preso un po’ dal dialetto, un po’ dal francese e un po’ da un afflato poetico che distribuisce le parole secondo un’armonia segreta, e ancora in evoluzione. Secondo Italo Calvino, L’angelo di Avrigue vive di “una voce grave e pausata, con una naturale propensione per i toni lirici e sospesi”, una peculiarità che rende alla perfezione l’atmosfera crepuscolare del Mediterraneo su un’umanità dolente e smarrita.
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