Zeb, un enigmatico personaggio, dissemina di manoscritti una piccola cittadina di provincia. Chi li trova deve inseguirlo nel suo personalissimo delirio facendosi avvolgere da un mondo variopinto e vagamente surreale. Come in una delle più misteriose canzoni di Bob Dylan, anche l’esordio di Gianrico Bezzato sulla lunga distanza di un romanzo (all’epoca aveva già pubblicato parecchi racconti su diverse riviste e scritto canzoni per i Knot Toulouse) mette in scena una varietà picaresca di personaggi (ivi compresi gli animatori di uno stralunato circo di passaggio). Alimentata da una fantasia onirica, notturna e caleidoscopica e relegata in una riserva della provincia, in Plays si muove, seguendo percorsi piuttosto imperscrutabili, una moltitudine di sbandati, outsider, disperati e tutta una serie di volti per cui Zeb pensa che “forse è meglio fare così, incrocio le braccia sul tavolo e ci appoggio la testa sopra. Magari sogno, magari ricordo tutta la storia. Forse alla fine della storia uscirò di qui. Fuori di me c’è tanta altra gente”. La florida scrittura di Gianrico Bezzato rende giustizia a tutto questo demi monde e si accorge che quelle vite scorrono a senso unico e così “magari cominci a capire bene che non è tutto rose e fiori. È un po’ tipo treno. La mia memoria vede tanti treni, tutti con i colori fastidiosi delle case in riviera. Là il profumo della maggiorana. Qui, in una stazione immobile sotto un soffitto a volte, l’odore del ferro, della gomma bruciata, dei cessi mai puliti. Scusa se le mie mani puzzano di mazzo di carte da quaranta”. A tutti gli effetti Plays è praticamente una raccolta di ritratti annodati l’uno con l’altro da un impercettibile filo comune, che però è reso piuttosto esplicito dal titolo. Nel sottile e ambiguo gioco di Plays umoni e donne sono tutti in cerca di autore e trovargli un luogo e un tempo è un po’il senso ultimo delle fantasmagorie tratteggiate da Gianrico Bezzato e interpretate da Zeb che si riserva sempre l’ultima parola, anche e soprattutto quando si parla di amore: “Ciao amore. Colpo basso di prima mattina. Amore chi... Io? Non ce lo vedo proprio tutto quest’amore in questo corpo da pseudo replicante quarantacinquenne. Ti va di fare l’amore? Ma chi è che fa l’amore... Io? Lo fai tu. Mettiamo su una società a responsabilità limitata? Ieri ho fatto venti chili d’amore, due metri d’amore, un bell’amore in noce piemontese, l’amore all’arrabbiata (be’, questa non è male). E meno male che il romanticismo crepuscolare predecadente a cui abbiamo avviluppato la nostra storia le ha sempre impedito di venirsene fuori con frasi tipo: ti va di scopare? Non ce l’avrei fatta”. Questo il tono generale: nel gran varietà di Gianrico Bezzato le storie e le genti sono là fuori confuse nel tran tran del mondo e non c’è altro, se non il sogno della scrittura, per raccontarle e per farle vivere. Compresi i titoli di coda, dove, in prospettiva, il finale oggi appare come un presagio autobiografico: “L’ultima frase non la leggo. Adesso me la ricordo. Guardo nello specchio dietro le bottiglie e mi vedo ridermi in faccia. L’ultima frase adesso me la ricordo bene. Dice più o meno così. Se sono stato qui, ci sono stato per poco. Giusto il tempo di soffiare forte in una trombetta di carta”. Gianrico Bezzato se ne sarebbe andato da lì a poco, ma il suo mondo è ancora tutto intatto qui dentro.
Nessun commento:
Posta un commento