In un’America che non è poi così lontana, David Pry trova un disco degli Almanac Singers, comprensivi degli irriducibili Woody Guthrie e Pete Seeger, tra i ricordi del padre, già un fiero patriota americano. La scoperta alimenta molti dubbi nelle riflessioni del figlio, tenendo in considerazioni che, negli anni della guerra del Vietnam, avrà modo di confrontarsi, attraverso la musica e le canzoni, con ben altre contraddizioni. I protagonisti di Rolling Vietnam conducono a rileggere un passato destinato a non passare mai: Nicola Gervasini ha ricostruito un’avvincente storia della guerra del Vietnam attraverso la musica e lo sfondo generazionale, che lega David Pry al padre e alla figlia Melinda (la storia comincia proprio con lei e con un disco di Bruce Springsteen, protagonisti di un breve prologo ambientato nel 2006) serve soltanto a riannodare le storie, i legami, i segreti e le virtù di canzoni che, come scrive Willie Nile nella prefazione “hanno risvegliato la coscienza di una nazione e hanno aiutato a trovare il modo di chiudere quella guerra”. Una scelta coraggiosa perché la materia era (ed è) vasta e complessa visto che “ci sarà sempre una guerra da combattere in questo mondo” e che quella del Vietnam fu ambivalente e ambigua: uno scontro impari sul campo di battaglia e un conflitto aperto tra diverse generazioni a casa, in America. Lo ricorda anche il principale alter ego del protagonista, Hank, quando gli dice: “Le guerre lasciano solo morti sul campo, da questo inferno ne usciremo tutti lacerati”. È andata così, ma dato che, come scriveva Paul Virilio, “non c’è guerra senza rappresentazione”, Rolling Vietnam trae nutrimento delle infinite ricostruzioni, partendo dalla frattura verticale narrata da Philip Roth nell’inevitabile Pastorale americano e dalla ribellione visionaria e psichedelica di Tim O’Brien in Inseguendo Cacciato, per non dire delle dozzine di film che hanno alimentato un intero immaginario. Qui, trattandosi di una “radio-grafia”, come spiega il sottotitolo, Nicola Gervasini si è dedicato piuttosto all’ordito di una colonna sonora che, a sua volta, ha determinato un modo unico e indelebile di percepire la guerra del Vietnam. Come un sarto paziente e certosino, ha provato a cucire e ricucire gli strappi, canzoni dopo canzoni, Phil Ochs dopo Bob Dylan, i Doors dopo i Buffalo Springfield, John Prine dopo Merle Haggard, ballata per ballata, mettendo tutti i nomi e le date e le informazioni nel tessuto di una trama che, proprio attraverso la musica, si evolve in modo spontaneo dalle fondamenta di un saggio per diventare, a tutti gli effetti, un romanzo compiuto. La metamorfosi avviene in corso d’opera, con naturalezza, cavalcando un’onda emotiva irripetibile perché, come diceva Michael Herr in un’intervista con Salman Rushdie, “in quegli anni il rock’n’roll ebbe una circolazione che non ha mai più avuto. In un certo senso la guerra è sopravvissuta al rock’n’roll”. L’opinione alla fonte di Rolling Vietnam è un riflesso perfetto e complementare di quella constatazione: “In fondo il Vietnam aveva salvato il rock’n’roll da morte certa, dandogli l’occasione di raccontare tutto in diretta, cogliendo ogni attimo e ogni sensazione di qualsiasi altra forma di espressione artistica. Era la guerra ad aver preso il ritmo del rock’n’roll, non il contrario”. È già sufficiente così perché leggere queste pagine “vuol dire semplicemente cercare di capire, guardare sempre oltre le parole e i fatti”. Nell’ignoranza, nella vacuità e nelle banalità vigenti, suona persino rivoluzionario.
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