Questi “avvisi di partenza” sono una sorta di Antologia di Spoon River nella versione allegorica e stralunata di Dino Buzzati. Quando Il reggimento parte all’alba non c’è alcun modo di eludere la chiamata: la metafora tratta dalla vita militare che, come ricordava Guido Piovene, per lui “era sacrificio e grandezza inutili ma nobili”, risponde alla necessità del distacco, distribuito in modo equanime, democratico e indiscutibile. È un obbligo perentorio che accomuna Wladimiro Ferraris, ispettore capo delle Dogane e Galileo Tani, libraio e Duilio Ronconi, possidente, Alex Roi, regista e Alfredo Brilli, commercialista, in un solo destino. Ognuno risponde a modo suo, come Celso Bibbiena, tessuti d’arte che pronucia così il suo commiato: “E anche voi leggiadre nuvole bianche fuggite lontano e anche voi leprotti e ghiri venuti a curiosare e anche tu luce del sole appena nato lasciateci. Ho da dire a lei le ultime cose così importanti e inutili, poi me n’andrò per sempre”. Dino Buzzati scompone e ricompone le vite delle sue “creature”, che non comprendono solo gli esseri umani che vengono allertati quando Il reggimento parte all’alba, ma anche la flora, la fauna e altre fantasiose invenzioni. Una simbiosi con le forme della natura e dell’immaginazione che diventa palese in La mosca e, ancora di più, nelle ultime parole famose di Rodrigo Zenon, dirigente dove sono evidenti gli echi delle metamorfosi kafkiane. Dino Buzzati segue però l’invenzione di una lingua congeniale al suo luogo letterario preferito, il frammento, lo schizzo, il piccolo racconto. La brevità, che in sé corrisponde anche all’urgenza ineluttabile dell’addio, non gli impedisce di farcire le pagine di calembour, divagazioni, favole e sorprese, trasformando i congedi in altrettanti squarci del suo immaginario, come è, giusto per esempio, Lo spirito del granaio: “Sono venuto al posto giusto nell’ora giusta per sentirti ancora una volta. Tutto è sistemato nel modo più adatto, sembra perfino impossibile, così non avrei neppure osato sperare… E tu non vieni, perché non vieni? Io non ti dico il perché. Non ti spiego”. Il reggimento parte all’alba ci ricorda la transitorietà dell’essere, una nozione che non dovrebbe sfuggirci anche quando “tutto è baraonda, furia e confusione” e che vede nella prosopopea di Ottavio Sebastiàn, vecchia fornace l’estrema dignità nel sentirsi, alla fine, parte di qualcosa, di un collettivo silenzioso e infinito: “No, non aver paura. Hai fermato la macchina sei sceso, ti sei affiancato all’ultimo plotone del reggimento designato, che marcia nella gloria crudele dell’aurora, dell’alba, del principio della notte senza fine. Meno male; non ti senti più così solo, vero che non ti senti così disperato?”, e la domanda è il ritornello che distingue ogni avvertimento, ogni singolo messaggero.
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