L’affaire Moro è un caso raro, se non proprio unico, di lettura della storia contemporanea italiana, in un frangente complesso e oscuro, che non cede alla tentazione di ricostruire la realtà, o di usarla, o di collocarla in funzione dell’evenienza o dell’ideologia del momento. Leonardo Sciascia compie, a priori, una scelta rigorosa, ponendo chiarendo la prospettiva, piuttosto che gli obiettivi: “Nel farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura c’è un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento appunto. In questa forma, nella forma che insieme assumono, nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le parti, sia pure molecolari, trovano necessità, e quindi, spiegazione, nel tutto”. Leonardo Sciascia evita la palude delle dietrologie, dei complotti, dei dettagli investigativi e giudiziari, anche se ne è cosciente, come si può notare nella relazione (di minoranza) della commissione parlamentare che porta la sua firma e affronta L’affaire Moro da un punto di vista dialettico, basandosi soltanto sull’analisi delle lettere di Moro dalla prigionia. Il riferimento qui è ancora e sempre a Pasolini quando diceva che “come sempre solo nella lingua si sono avuti dei sintomi”. Nella sua condizione, nel suo “stato di necessità”, di prigioniero “prelevato”, Moro, deve fare i conti con la “ragione di stato” che, prima del 16 marzo 1978, nella sua idea coincideva con un’indefinita “volontà generale”. Sciascia è lucido, a suo modo impietoso, nel sottolineare come Moro ha sviluppato “un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata”. Per districarsi nella labirintica prosopopea di Aldo Moro (e non meno, nei diktat dei suoi rapitori), Sciascia sceglie di infilarsi in un dedalo letterario con Elias Canetti, Voltaire, Tolstoj, Poe, Manzoni e infine Borges, Unamuno e Cervantes riuniti nel nome di Don Chisciotte. Matura una percezione di una realtà attraverso la letteratura, usata come un filtro per discernere il falso, le ambiguità, le mistificazioni, gli arrembaggi e le ritirate verbali, le cortine fumogene dei luoghi comuni e della retorica, utili soltanto a quello che, alla fine, anche Aldo Moro chiama molto semplicemente “il potere”. Ne nasce per ammissione dello stesso Sciascia “una sintesi, una tirata di somma: ma nel vuoto di riflessione, di critica e persino di buon senso in cui la vita politica italiana si è svolta, le sintesi non poteva apparire che anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni. Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità, quando dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla, sembrò generarsi dalla letteratura”. A quasi mezzo secolo di distanza dagli eventi, L’affaire Moro resta un caposaldo raziocinante, preciso, nitido di una grande solitudine intellettuale, e civile.
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