Il secondo romanzo di Paolo Cioni va incontro con decisione alla lunga e florida tradizione della commedia italiana, ed è una scelta che rende molto più personale e originale la sua narrativa, rispetto all’esordio di Ovunque e al mio fianco. Le differenze sono sostanziali: se da una parte c’era l’esuberanza di una trama in movimento sulle strade dell’Europa, e con una Cadillac rubata a un fan di Elvis, qui c’è l’immutabilità della provincia, nello specifico di quel paesaggio ondulato alle pendici degli Appenini, tra Parma, Fiorenzuola e Fidenza. L’identificazione territoriale non è funzionale soltanto all’ambiente del romanzo. Si tratta di una collocazione che ricorda i narratori della pianura lungo il versante emiliano Po (Celati, Cavazzoni, Delfini) di cui Paolo Cioni condivide sia la naturale associazione geografica sia il gusto per un tono ironico, leggero, a tratti surreale. Una formula che trova la sua espressione migliore in Adelmo Santini, protagonista indiscusso di Il mio cane preferisce Tolstoj. Il suo è il perfetto ritratto dell’artista sulla via del crepuscolo: è stato uno di quei comici a cui, grazie all’intercessione televisiva, è stato concesso di tutto, radio, teatro, cinema e, immancabile, il libro riempito di battute e amenità assortite, per poi finire “lì, nel piccolo schermo luminoso e sempre più appannato, il mondo dello spettacolo dava la peggiore rappresentazione di sé: vecchi comici, attori sfiatati, giornalisti in sovrappeso, soubrette coperte di cerone, tutti ballavano, sudavano e ridevano e stonavano cantando canzoni di cui non ricordavano le parole, senza smettere mai di lodarsi gli uni con gli altri. Erano tutti grandi artisti, senza nessuna eccezione, i cantanti stonati e le ballerine che inciampavano nei tacchi. Tutti. Toccavamo il fondo insomma”. Solo che la televisione si mangia le sue creature, in particolare quelle che le si rivoltano contro, e per Adelmo Santini, così come per molti suoi colleghi, la stagione dell’oro e della sfortuna sfuma in un limbo indefinito, tanto che “ecco, a volte”, sarebbe addirittura meglio l’oblio. Adelmo Santini, poi, ci ha messo tutto l’impegno possibile tra una lunga teoria di fidanzate, compagne, amanti per una sola notte (e anche una moglie, Vera), colpi di testa e abitudini bizzarre perché, come ammette con un certo candore, “se si tratta di colare a picco, nessuno più di me ha le carte in regola”. Dovrebbero bastargli la poesia della nebbia tra i pioppi, i suoi cani che gli sgranocchiano mezza biblioteca, i pochi e fidati amici, ma un giorno riceve una strana lettera anonima corredata da una minaccia di morte. In quel momento sta verniciando il soffitto perché come diceva il nonno non c’è “niente al mondo che non si possa sistemare con una buona mano di bianco”, e l’oscura missiva invece gli impone di ricordare che “le vecchie case sono così. Piene di fantasmi e di storie”. Sentendosi in pericolo, anche perché ha ancora molti conti aperti nei suoi turbolenti trascorsi, il Grande Santini (sì, perché se ne trova anche uno Piccolo, tutto da scoprire) prepara un elenco dei possibili mandanti e da lì comincia la lunga serie di avventure picaresche che caratterizzano Il mio cane preferisce Tolstoj. Tra un manager avido e un editore fallito, resta sullo sfondo l’effimero universo dello spettacolo e dell’intrattenimento, che Paolo Cioni sa raccontare con un sorriso brillante, non privo di una malinconica consapevolezza.
Nessun commento:
Posta un commento