Il viaggio lungo il Danubio di Claudio Magris è fratello e parallelo di quello di Predrag Matvejević nel Mediterraneo, e in comune ha anche il dato, indiscutibile, che “ogni esperienza è il risultato di un tenace metodo”. Nel caso di Claudio Magris si tratta di una continua, insistente e reiterata sovrapposizione con la letteratura, usata come una bussola capace di superare le latitudini e le longitudini, perché proprio “così il viaggiatore si inoltra fra le proprie allergie e i propri scompensi, sperando che in quelle fessure, incise come lame nelle quinte del teatro quotidiano, ci sia almeno un soffio o uno spiffero proveniente dalla vita vera, celata dal paravento del reale. Le manovre letterarie diventano allora una strategia per proteggere quegli strappi mal rattoppati nel sipario sulla lontananza, per impedire che quei minimi spiragli si chiudano del tutto; l’esistenza dello scrittore, diceva monsignor Della Casa, è uno stato di guerra”. Se la corrente del Danubio porta, senza alcuna possibilità di equivoco, nel cuore della cultura mitteleuropea, che Claudio Magris coltiva e sfoglia con devozione e leggerezza, e poi nei meandri balcanici, affrontati con acuta discrezione, nell’attraversare un confine dopo l’altro, prende forma una dimensione temporale astratta. Come se la storia finisse in un’ansa del fiume, “si vivono come contemporanei eventi accaduti da molti anni o da decenni, e si sentono lontanissimi, definitivamente cancellati, fatti e sentimenti vecchi di un mese. Il tempo si assottiglia, si allunga, si contrae, si rapprende in grumi che sembra di toccare con mano o si dissolve come banchi di nebbia che si dirada e svanisce nel nulla; è come se avesse molti binari, che s’intersecano e si divaricano, sui quali esso corre in direzioni differenti e contrarie”. Lungo le sponde del Danubio, da Vienna a Budapest, il tempo è un imbarazzo difficile da concedersi visto che “l’identità è una ricerca sempre aperta e anche l’ossessiva difesa delle origini può essere talora una regressiva schiavitù quando, in altre circostanze, la complice resa dello sradicamento”. Il viaggiatore che “non ha l’assillo di fuggire, ma vorrebbe fermarsi, portarsi dietro persone e paesaggi” è obbligato a trovare un modo di interpretare la realtà proprio perché quando “sta venendo cancellata con violenza, pensarla diventa un atto di fede”. È lì che le riflessioni del potamologo si evolvono in un atlante dove la letteratura è vista prima “come trasloco”, dove qualcosa “va perso e qualcosa salta fuori da ripostigli dimenticati”, e poi come “contabilità, libro mastro del dare e dell’avere, inevitabile bilancio di un deficit. Ma l’ordine del registro, la precisione e la completezza del protocollo possono dare un piacere che compensa la sgradevolezza di ciò che viene annotato”. Sul Danubio l’elenco delle occasioni da conteggiare è sterminato: imperi decadenti e decaduti, Wagner e Canetti, biblioteche e castelli, ponti e frontiere, finché “sul ciglio del silenzio” Claudio Magris si accorge che “forse scrivere significa colmare gli spazi bianchi dell’esistenza, quel nulla che si apre d’improvviso nelle ore e nei giorni, fra gli oggetti della camera, risucchiandoli in una desolazione e in un’insignificanza infinita”. A quel punto Danubio diventa qualcosa di più e il pellegrino, con il bagaglio pieno di un viaggio meticoloso e appassionato può sentirsi soddisfatto si accorge che “lungo il fiume che d’estate, ci dicono, talora scompare, il passo accanto al mio è inconfutabile come quel corso d’acqua e nella sua onda, seguendo la curva delle rive, forse so chi sono”. Il carattere del Danubio, aristocratico in superficie, democratico in profondità, consente l’immediato passaggio dall’epifania individuale a quella collettiva che Claudio Magris, in conclusione, riassume così: “Noi siamo ciò in cui crediamo, gli dèi che alberghiamo nella nostra mente, e questa religione, alta o superstiziosa, ci segna indelebile, s’imprime nei nostri lineamenti e nei nostri gesti, diviene il nostro modo di essere”. Una splendida avventura.
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