Dove finisce Se questo è un uomo comincia La tregua, che è la descrizione minuziosa dei giorni dalla liberazione dal campo di concentramento al ritorno a casa. Il tragitto è un’altra pagina drammatica perché Primo Levi e i suoi compagni di viaggio vengono prima abbandonati a se stessi, e poi si ritrovano nelle fitte maglie della burocrazia sovietica che li trasporta in mezza Europa. Polonia, Ucraina, Romania, Ungheria, Austria, Germania: verso sud e poi verso nord, da ovest a est, e viceversa, le tappe sono estenuanti come se il lager avesse inseguito Primo Levi con tutti i suoi fantasmi. Vede La tregua come “un racconto intessuto di albe gelide”, ed è scrupoloso nell’elencare ogni attimo, senza farsi sfuggire nulla, in modo da consegnare alla memoria un quadro completo, definitivo ed esauriente, comprensivo delle sofferenze, del coraggio, delle privazioni e della dignità con cui sono state sopportate, soprattutto nel momento in cui la speranza era di nuovo all’orizzonte. La tregua spiega con grande accuratezza quel passaggio, velato da un’ombra indicibile: “Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti”. Le condizioni restano estreme: fame, freddo, fatica e, più di tutto, l’incertezza sottolineano il tragitto per tornare a casa, lungo un percorso che segue le frontiere d’oriente, lungo ferrovie disordinate e scardinate. Una sfiancante attesa in cerca della giusta direzione per “la lontanissima libertà” che arriva con estrema lentezza, e altrettanta, sovrumana pazienza. A distinguere La tregua è il dipanarsi di una lunga teoria di incontri, con personaggi (tra gli altri Cesare, Leonardo, Mordo Nahum, il greco, Gottlieb, Cravero, Velletrano, Giacomantonio, Flora) a condividere giorni di stenti e privazioni, di precarietà e di abulia. Primo Levi annota i commerci, la prostituzione, le continue trattative per un pezzo di pane, per un pesce, per una gavetta di latte, lo stupore nel ritrovarsi al cinema o a teatro, ma riesce sempre a collocare al centro l’individuo e la sua personalità, nonostante il buio e l’angoscia che lo circonda: “È noto che nessuno nasce con un decalogo in corpo, e ciascuno si costruisce invece il proprio per strada o a cose fatte, sulla scorta delle esperienze proprie, o altrui assimilabili alle proprie; per cui l’universo morale di ognuno, opportunamente interpretato, viene a identificarsi con la somma delle sue esperienze precedenti, e rappresenta quindi una forma compendiaria della sua biografia”. La sua posizione resta quella di un testimone partecipe, coinvolto, lucidissimo nell’orientarsi e nell’osservare la mutazione che impongono le incognite: “Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, e anche so di averlo sempre saputo”. Il valore inestimabile di Se questo è un uomo si accorda a quello che aggiunge La tregua che, fino in fondo, nega ogni retorica, quando Primo Levi riflette che “forse, quanto è avvenuto, non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: comprendere un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui”. Sì, una distinzione, anche nell’esercizio della memoria, va fatta.
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