Come il fiume sfocia nel mare, per chi scrive è inevitabile affrontare lo scoglio della narrativa, anche dopo anni e anni di intenso lavoro saggistico. È proprio il caso di Mario Maffi che giunge al suo primo romanzo con una lunga e ricchissima serie di volumi alle spalle, in gran parte dedicati alla cultura anglosassone, nello specifico all’America e dintorni. Proprio lì comincia Quel che resta del fiume: Rhys Campbell è un uomo tormentato da rimpianti e da solitudini, compresa la brusca separazione dalla moglie Alison, ma ha la fortuna di essere circondato da solide amicizie: Gisela e Tom, che vivono su una barca, Marc, con cui condivide gusti, chiacchiere e passioni (politiche) e, soprattutto, Annette che è stata e sarà qualcosa in più di un’amica. Ha trovato un modus vivendi, che poi definisce il ritmo singolare e gentile di Quel che resta del fiume: Rhys ama bordeggiare (un termine ricorrente nel corso del romanzo), come se, arrivato a un punto critico dell’esistenza, avesse deciso di limitare i danni, ma quando alla sua porta appare Belle, figlia dell’amico Sal, artista genialoide di cui ha perso le tracce da tempo, l’onda della vita riprende forza, tra ricordi e passaggi futuri, tra storie e memorie e una lunga teoria di emozioni condivise proprio con gli amici. Le occasioni non mancano: ci sono cibi, bevande, letture, le canzoni di Kris Kristofferson, The Köln Concert di Keith Jarrett, la fisarmonica e le danze quando Belle incontra Arsène e i suoi parenti della comunità cajun, uno dei momenti più vitali del romanzo. In quei frangenti i paesaggi sono quelli di James Lee Burke, con le luci, i riverberi e i riflessi acquatici che filtrano tra le righe, ma il tono e soprattutto i lineamenti caratteriali di Rhys ricordano il tratteggio di Richard Ford con meno pretese, e molto più cordiale. Seguendo turbamenti e gioie del protagonista, Quel che resta del fiume allinea le esplorazioni già note nei saggi di Mario Maffi e qui si va da Mississippi a Nel mosaico della città, dedicato al Lower East Side, perché protagoniste sono le città: New Orleans e la Louisiana sono il baricentro del presente verso il passato di Chicago, Kansas City e New York che è anche una tappa intermedia verso il futuro di Londra. Alle dissertazioni puntuali sulla forma, sull’architettura e sull’essenza delle metropoli, si alternano, nei dialoghi tra Rhys e gli amici, gli eventi simbolici all’inizio nel nuovo secolo. Dopo Katrina, l’11 settembre, il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, le guerre nel Medio Oriente, la crisi dei subprime del 2008, tutti i drammi americani che hanno così determinato la vita nel mondo. In realtà le scansioni temporali si confondono nella memoria e nello svolgimento della trama che è essenzialmente divisa in due parti, quella americana e poi quella europea (inglese, per la precisione) che si saldano proprio attraverso fitti orditi di storia e il minimo comune denominatore dei fiumi: il Mississippi, l’East River, il Tamigi. Lungo le rive si svolge una sottile rete autobiografica, e non soltanto per i viaggi americani: un po’ affiora in Marc, a partire dalla dedizione per i movimenti operai che sono un sottofondo costante in Quel che resta del fiume, ma in gran parte e ancora di più nel finale è proprio Rhys a inseguire Mario Maffi. All’appello manca solo Parigi (anche se il francese lo accompagna dal bayou all’East End), ma ci sarà occasione: i fiumi scorrono (più o meno) tranquilli, ma non si fermano mai.
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