Nel 2005, Peter Gabriel ha accompagnato il figlio a vedere lo show dei Musical Box, un gruppo che riproduce alla perfezione i concerti dei Genesis d’antan. A tutti gli effetti, è l’unico modo per viaggiare nel tempo e riscoprire il valore di intuizioni, esplorazioni ed emozioni ormai sfumate per sempre. È su questa leva, una complessa miscela tra la nostalgia e “una sorta di senso di appartenenza”, come scrive Massimiliano Barulli, che fa forza il fenomeno delle cover e, ancora di più, delle tribute band, che ha avuto particolare fortuna in Italia. In sintesi, le tribute band sono quelle che dedicano uno show uniforme al repertorio di un singolo artista, con un’evoluzione specifica negli impersonator che riproducono nei minimi dettagli il personaggio di riferimento. Le cover band, invece, interpretando canzoni altrui propongono uno spettacolo più variegato, ma senza scoprire nulla di nuovo. Entrambe le categorie si rifanno a quella che Massimiliano Barulli chiama L’arte di imitare, sfruttando i risultati degli sforzi altrui, e se il limite creativo è evidente, la loro proliferazione è tale da suscitare molti interrogativi. Gli estremi possono condensarsi nel fatto che “un tributo maniacalmente fedele può dare, tuttavia, la sensazione di una recita a soggetto o di una rappresentazione teatrale” o che, in un modo o nell’altro, si tratti comunque di condividere un’emozione come dice come dice Matteo Fiorini, chitarrista degli Stupendo, un gruppo dedicato a Vasco Rossi: “Se ti piace quello che fai lo fai piacere anche agli altri; se non ti emozioni, se non ti piace quello che fai al pubblico non arriva niente”. Massimiliano Barulli esplora tutte le condizioni che definiscono le cover e le tribute band con testimonianze dirette raccolte non solo tra i musicisti, ma anche conversando con promoter, direttori artistici, giornalisti. Molte sfumature sono accennate perché ci vorrebbe una serie di digressioni a parte, ma Massimiliano Barulli riesce nell’intento di offrire un quadro completo ed esaustivo. Il punto di partenza è che “la tribute band nata dalla passione per l’artista replicato è formata principalmente da fan che si pongono come obiettivo quello di rendergli omaggio, cercando di ottenere un livello qualitativo più alto possibile. In questo caso, il movente non è quello economico, ma principalmente la celebrazione dell’artista, messa in scena da fan per altri fan”. È quello che ribadiscono a ogni concerto, per esempio, gli Achtung Babies, uno dei primi tributi agli U2 e oggi una solida realtà che concentra tutte (o quasi) le opzioni e le contraddizioni del caso. Anche perché la riproduzione estremamente fedele e scrupolosa del repertorio degli U2 cha costituito infine un ambito professionale a cui dedicarsi a tempo pieno, a differenza dei cosiddetti “weekend warrior”, ovvero dei dilettanti. In più, L’arte di imitare esplora le tribute band al femminile, il ruolo dell’abbigliamento e dei costumi, persino delle tonalità delle canzoni e di ogni altro dettaglio teso a rendere verosimile e credibile il simulacro, che, come ne caso di Peter Gabriel, il più delle volte appartiene a un tempo perduto. La conclusione è che “il passato viene sempre più riproposto nell’attuale società contemporanea al punto da concedere largo spazio a forme d’intrattenimento basate sulla sua replica in ogni forma possibile. Solo comprendendo questa retromania come parte rilevante dell’odierno panorama della musica di massa è possibile considerare le tribute band come elementi non secondari dell’attuale scena musicale e sociale italiana”. Massimiliano Barulli la riporta in quella che definisce giustamente “un’istantanea della storia e della situazione attuale delle tribute band in Italia, in gran parte attraverso le parole dei suoi protagonisti”, ed è vero, ma a dispetto del suo titolo, L’arte di imitare è un lavoro molto originale, e molto utile.
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