L’Irlanda e la Provenza, la Grecia e la Sicilia, Milano e Firenze, il viaggio di mille vite che in ogni sua tappa diventa una rappresentazione del pensiero e un riflesso della geografia delle emozioni. Tra Greta e Bruno, Paolo e Francesca, Andrea e Anna si profila un nuovo ordine, come se le costellazioni di Scardanelli abbiano infine trovato un’impossibile logica tra i fantasmi che si rincorrono verso gli orizzonti che L’accordo ha aperto nelle puntate precedenti, con repentini salti nel tempo e nello spazio. Uno squarcio porta nella Firenze new wave, quella dei Litfiba e dei Diaframma, dove Paolo vive un’intensa e tormentata love story con Francesca. Molti anni dopo è diventato, per sua stessa ammissione “una sentinella del tempo presente” e intorno a lui ruotano il passato, i ricordi, i sogni e la concezione definitiva che la vita sia “una dannata benedizione: appesi su di una croce, il volto contratto in una smorfia di dolore ma sorridenti per una consapevolezza che prezzo non ha. La vita vale la pena d’essere vissuta solo per questo: la benedetta consapevolezza che siamo fottuti. Tutto il resto è noia”. Il racconto di Paolo, l’alter ego di Scardanelli e protagonista della saga, rimbalza da una personalità all’altra, senza temere cambi di prospettiva. C’è Bruno, braccato da feroci criminali, c’è Anna, la madre, più volitiva e affascinante che mai e, di nuovo, c’è lo spettro di Andrea, e ancora Milano, la torre Velasca come un totem che sorveglia ritorni e partenze in continuazione, con un’assiduità estenuante perché la vita è fatta proprio così, senza sosta, e “non apparteniamo mai davvero a un posto sino a che non l’abbandoniamo; a quel punto il ricordo di ciò che eravamo in un’altra vita, in un altro luogo, ci afferra il collo e ci fa provare la più struggente delle nostalgie”. Restano istantanee di famiglie sfuggenti, ma tutto rientra nel flusso inarrestabile della scrittura di Paolo Scardanelli perché “i nomi sono connessi alle persone, le persone alle cose e ai luoghi. E, quindi, ai nomi. I nomi stanno alla vita come il sale agli ingredienti: ne determinano il sapore. E l’orientamento”. Le tormentate creature di Paolo Scardanelli esprimono tutta una gamma di sfumature dell’esistenza, con un finale eclatante dove l’intersecarsi delle vite si risolve in tragedia perché, pare di capire, davvero non c’è Un posto sicuro. La loro posizione è definita dagli eventi che si succedono, e che tentano di comprendere, e “allora tutto quello che s’agita in queste pagine, tutto il sangue e le lacrime e il dolore e i ricordi e le vite e le morti che trasudano da queste come innumerevoli altre pagine, altro non sono che un’epifania; quella dell’inconscio che, attraverso la memoria, si fa realtà”. Questo scostamento è necessario per penetrare in Un posto sicuro e del resto Scardanelli pensa che “forse dovremmo passare tutti una settimana in un campo di zingari. Guardare il mondo che crediamo ci giri intorno dritto negli occhi, soccombendo se necessario, e lo è necessario, ve l’assicuro. A onta del nostro orgoglio. Della benevolenza e dell’amore verso il prossimo”. A volte, il ritmo accelera (senza pietà) o, al contrario, rallenta alla velocità di un brindisi con un vino pregiato scoperto per caso (e per fortuna) o asseconda le canzoni di Ben Watt, Robert Wyatt, Neil Young e Amy Winehouse (su tutti) e fiorisce di citazioni esplicite e implicite, condito dalle digressioni filosofiche o dalla certezza che “talvolta abbiamo bisogno di dire bugie. Prima a noi stessi di modo che possiamo crederci, quindi, una volta che ci siamo bene convinti, possiamo estenderle agli altri, mettere la testa nella sabbia e andare avanti così. Anche per anni. Per una vita intera se necessario”. E così Un posto sicuro non si troverà mai tra le pur intense coordinate geografiche, piuttosto Paolo e Scardanelli avvisano che “la salvezza è una questione di volontà”, e soltanto nel florilegio in sé della scrittura resta una nota di speranza.
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