Quando George Clinton esce dall’astronave a Oakland, California la sera del 22 gennaio 1977, la sfida degli afronauti è giunta a un punto di non ritorno. Poco importa se succede tutto sul palco del Coliseum, in un mirabolante spettacolo di luci, grida ed elettricità. Come ricorderà Rickey Vincent, l’arrivo del Dr. Funkenstein “ci restituiva i nostri antichi sogni, ma con un significato diverso”. Di cosa si tratta lo spiega Giorgio Rimondi con un formidabile dispiegamento di mezzi, che parte dalla necessaria definizione di “narrazione speculativa”, per poi indagare a fondo il ruolo della fantascienza nell’esperienza e nella cultura afroamericana. Scrive infatti Giorgio Rimondi: “Il fantastico è infatti una provocazione, una sfida all’ossessione tassonomica della cultura occidentale e un’incrinatura nell’ordine che essa vorrebbe imporre alle cose. È insomma una figura inquieta (e indubbiamente inquietante) della nostra identità, in grado di rimescolare vicino e lontano, familiare ed estraneo, inducendo in chi legge la perdita di ogni certezza”. Questo ha un significato particolare nel momento in cui, intorno alla metà del secolo scorso, la corsa allo spazio, non priva di risvolti bellicosi, gravava sull’immaginario collettivo, come annota bene lo stesso Rimondi: “D’altronde l’era spaziale diventa importante proprio perché dà forma ai desideri e alle paure della contemporaneità. Ma è pur vero che a partire dal lancio dello Sputnik quei desideri e paure si trasformano in una sfida, indubbiamente tecnologica ma anche, e forse principalmente, concettuale”. Se la tensione e la sensazione di pericolo verso il futuro era indistinta per tutti, per gli afroamericani aveva una valenza differente e così la evidenziava Duke Ellington: “Ecco allora il mio parere sulla Race for Space. Non la vinceremo mai finché noi americani, collettivamente e individualmente, non riusciremo a trovare un new sound, un suono fatto di armonia, fratellanza e rispetto, fatto di una diversa considerazione per la dignità e la libertà degli uomini”. È lì che si trovano i presupposti per cui L’invasione degli afronauti diventa una tourbillon di immagini, mondi, costruzioni, esplorazioni e tempi, disposti secondo un ordine felicemente caotico, ma sempre assecondando la definizione di Greg Tate per cui “la science fiction rappresenta il tentativo di codificare un impulso che deriva dal desiderio umano di conoscere l’inconoscibile”. Dall’epocale apparizione di Uhura in Star Trek a Sun Ra (“Quando suono la space music sto affrontando il vuoto, che è il vuoto dello spazio ma anche quello della condizione nera”), da Jimi Hendrix a Basquiat, da Ornette Coleman ai fumenti, da Samuel Delany a Mumbo Jumbo di Ishmael Reed, da John Coltrane ai Public Enemy, L’invasione degli afronauti in modi differenti e contrastanti ma perfettamente inseriti nel suo ricchissimo impianto, rivela che, come scrive Nnedi Okorafor, “la science fiction è una delle forme più grandi ed efficaci di scrittura politica”. Non ci sono dubbi, e Giorgio Rimondi si spende con generosità nell’illustrare le radici, gli intenti e le motivazioni delle astronavi narrative di inizio millennio, che poi riportano comunque a quello che diceva Richard Buckminster Fuller: “Se vuoi cambiare le cose non combattere la realtà, ma costruisci un nuovo modello che la renda obsoleta”. In definitiva, è forse il tema principale che attraversa L’invasione degli afronauti ed è reso ancora più esplicito da Octavia Butler: “Che strano: nel crescente desiderio di creare alieni noi esprimiamo il bisogno che abbiamo di loro, e contemporaneamente il profondo timore di essere soli in un universo che non si cura di noi più di quanto si curi delle pietre o di qualsiasi altro frammento di se stesso. E ovviamente non siamo capaci di andare d’accordo con questi alieni che ci sono così vicini, questi alieni che ovviamente siamo noi”. Un libro eclettico, prezioso, utilissimo, e molto funky.
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