Il tratto è sempre generoso, gli occhi sono al centro, e sembrano guardare qualcosa che è invisibile ai più. Un’astrazione, una possibilità, uno spazio, un tempo o “un’altra via”, come dice lo stesso Pietro Spica, da cercare “in direzione ostinata e contraria”. I volti che hanno preso forma sono quelli di cinquanta anarchici, da Alberto Meschi a Virgilia D’Andrea passando, tra gli altri, per Emma Goldman ed Errico Malatesta, Franco Serantini e Gaetano Bresci, Giuseppe Pinelli e Ida Mett, Lucy Parsons e Max Stirner, Nella Giacomelli e Paul Goodman, Pietro Gori e Simone Weil e Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. I ritratti di Pietro Spica compongono, insieme alle sintetiche ed efficaci note biografiche di Lorenzo Pezzica, un “racconto corale di immagini, sogni, canzoni e storie” che comprendono anche alcune riflessioni che suonano e saranno sempre attualissime, anche a distanza di un secolo, come quella di Maria Luisa Bernieri: “La nostra è un’epoca di compromessi, di mezze misure, di male minore. I visionari vengon derisi o disprezzati e gli uomini pratici governano la nostra vita. Non cerchiamo più soluzioni radicali ai mali della società, ma miglioramenti; non cerchiamo più di abolire la guerra, ma di evitarla per un periodo di qualche anno; non cerchiamo di abolire il crimine, ma ci accontentiamo di riforme penali; non tentiamo di abolire la fame, ma fondiamo organizzazioni mondiali di carità”. Scorrono esistenze tragiche come quella di Marija Spiridonova o di Louise Michel, flagellate dalle persecuzioni, vite ormai diventate leggendarie, come quella di Buenaventura Durruti, o molto più prosaiche come quella di Amedeo Bertolo, che però riassumeva l’eresia di tutti protagonisti, “proprio perché libertari, perché rifiutano il principio di autorità in campo culturale e il rapporto di dominio in campo politico e sociale”. Le immagini di Pietro Spica, che hanno un fascino austero e nello stesso tempo elegantissimo, accompagnano così le biografie di Gustav Landauer (“Lo stato non è qualcosa che si possa distruggere con una rivoluzione, ma è una condizione, un certo rapporto tra esseri umani, una modalità del comportamento umano: lo distruggiamo stabilendo nuove relazioni, comportandoci in modo diverso”) o William Godwin (“Ciascuno è abbastanza saggio da governarsi da solo”), annodando una dopo l’altra quell’idea che, come rammenta giustamente Pietro Spica, ambisce a unire “il massimo della libertà individuale col massimo della libertà sociale”. Al pittore è dedicato il bel profilo finale a cura di Alice Alessandri che comincia in modo enigmatico (“Pianificare è posticipare e posticipare è l’anagramma paradossale del suo nome”) per poi districarsi nel raccontare l’incontro con l’artista e con l’evaporazione di una galassia variopinta, cosmopolita, inafferrabile, tanto che l’ospite curiosa si chiede: “Va bene, ma allora, piuttosto: cosa c’entra l’arte con l’anarchia? Affiora il sospetto che la risposta abbia qualcosa a che fare con quella faccenda adorniana dell’immaginare un mondo possibile, diverso dal mondo reale”. Sì, lo sguardo, il suo come quello dei suoi soggetti, porta comunque lì, in un posto che non c’è, e magari non ci sarà mai, ma merita di essere scoperto.
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