Il patto mefistofelico che si annuncia con una strage truculenta in un cortile dell’università, nel cuore di Milano, ha contorni frastagliati che sono ben rappresentati dal gusto barocco con cui In principio era il dolore assume una forma fantasmagorica, tra un dramma shakespeariano, The Rocky Horror Picture Show, un compendio di filosofia, e con Patti Smith all’inizio e gli Stranglers alla fine, con l’intento di sublimare affinità e divergenze, forza e debolezza della narrazione in sé perché “ciò che sovente ci spaventa è la capacità evocativa della parola: essa sottende il senso oltre il significato. E noi tutti temiamo, rifuggiamo il senso, quello vero, quello profondo, quello che ci sprofonda negli abissi sotto i nostri tremebondi piedi. Quello che talvolta va oltre la ragione”. Va letto nella giusta prospettiva, come se fosse un sogno di mezza estate, cogliendo, nella sua composizione erudita e ipertrofica, una sottile e fluttuante vena ironica. Molto dipende dall’aspetto onirico, condiviso con la natura di gran parte delle canzoni di Neil Young di cui è disseminato In principio era il dolore. È un’atmosfera costante e avvolgente, anche se i luoghi sono reali: i chiaroscuri di Milano (“Una città su di una sorta di crinale: da un versante l’affermazione con tutto ciò che essa comporta, dall’altro la sparizione, l’anonimato, la sconfitta”), il bianco accecante delle Alpi, la natura bucolica dell’Inghilterra e quella misteriosa di Stonehenge. In questa mutevole cornice, il principe dell’oscurità è ritratto con tanto di zoccoli, ali e mantello spolverato di zolfo, come se fosse sgusciato da un’illustrazione d’epoca in un’era moderna, scomoda anche per lui. A quest’immagine, ricorrente nel romanzo, corrisponde una moltitudine di citazioni filosofiche, implicite ed esplicite, con cui sono farciti dialoghi e argomentazioni, come se ci fosse una rete di sicurezza determinata dalla ragione, dal pensiero, e dalla consapevolezza che “il mondo reale ci padroneggia, lasciandoci senza illusioni”. Più che un’infinita battaglia tra bene e male, che peraltro restano avviluppati uno all’altro, è l’attrito tra istinto e cognizione, tra pulsione e riflessione, che viene celebrato in una rappresentazione teatrale, con un assiduo moltiplicarsi di prospettive, punti di vista e altrettante voci. In principio era il dolore si snoda così attraverso tanti rapporti come cuciture che si susseguono e si incrociano tra i protagonisti: lo scrittore Fabio Pugno e la moglie Loredana, lei e il suo avvocato, nonché il colto commissario Belletti che osserva come un deus ex machina il sovrapporsi di ruoli in una coltre di ambiguità e di colpi di scena (“Il diavolo che cita Thoreau! Il mondo doveva essere davvero sul procinto di collassare”) che necessariamente vanno scoperti in totale autonomia, essendo la trama comunque fondata sul classico whodunit. Come recita il sottotitolo forse c’è Un Faust di meno, ma senza dubbio c’è una corrispondenza tra Fabio Pugno e Paolo Scardanelli nel comprendere che “il mestiere di scrittore non cessa mai, è una sorta di disposizione d’animo, di tonalità emotiva verso il mondo. Aiuta a guardarsi dentro e a superare la disperazione; così dovrebbe essere, almeno...”. L’incertezza è diabolica, ma non se ne può fare a meno.
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