Seguendo le tracce di una trentina di protagonisti suddivisi in quattro città (Torino, Roma, Milano, Bologna), Pablo Pistolesi organizza una storia orale dei rave in Italia nell’ultimo decennio del ventesimo secolo. Sono tutti concordi nel sottolineare che i rave erano espressione delle “zone temporaneamente autonome” di Hakim Bey, sia che si svolgessero all’aperto, negli spazi naturali, sia che prendessero forma nelle aree dismesse del tessuto metropolitano. Appare subito chiaro che la mutazione dei luoghi, degli scenari era una parte fondamentale di quella che Andrea Benedetti definisce “la rappresentazione di un futuro inaspettato”. Partiva dalla necessità di superare forme di aggregazione tradizionali e limitate, per scoprire un’idea di musica autoprodotta e indipendente che trovava con “Una convergenza tra una critica culturale a quello che era l’aspetto più repressivo e opprimente dello status quo e quella che era una proposta artistica che riusciva a farsi interprete di questo tipo di istanze”, come l’ha definita Fabrizio Rossi. Le diverse voci spiegano in forma diretta, senza particolari mediazioni letterarie, lo sviluppo dei rave, le connotazioni, gli ingredienti, le passioni, prima di tutto come spiega Øcapi alias Filippo Edgardo Paolini: “Eravamo noi partecipanti, ragazze e ragazzi di varia provenienza, ricchi o poveri non importava, a disegnare un significato rinnovato dello stare insieme, non solo ballando ma parlando intensamente per ore intorno a un fuoco o passeggiando all’alba insieme ai nuovi amici di turno. Il centro però rimaneva la musica, quel ritmo cardiaco elettronico che ho scoperto proprio in quegli anni”. Se l’aspetto individuale e quello collettivo hanno trovato una sintesi attraverso i suoni e le visioni prodotti (tra gli altri) da Mutoid Waste Company, Aphex Twin, Spiral Tribe, Acid Drops, nei rave c’erano tutti “i presupposti di rottura, di alterità, di differenza” perché diventassero“un momento di critica radicale”, come dice ancora Fabrizio Rossi. Avendo “creato situazioni da migliaia di persone fuori controllo, bloccato interi quartieri con musica assordante e incomprensibile”, ricorda lo stesso Pablo Pergolesi nella prefazione i rave si sono distinti come l’ultima, vera espressione controculturale. Una ribellione che germogliava dall’esperienza e dalle emozioni personali (come racconta Stek: “Il nostro atto politico era essere felici. Era una rivoluzione. Sono felice nonostante voi”), dalla gioia delle danze senza fine, ma che poi nella costante condivisione di piaceri, ruoli, strumenti, materiali e spazi è diventata, da una parte, come la definisce Fricchio “una resistenza contro un sistema che non ci piaceva” e dall’altra, nella percezione di Andrea Benedetti, “una specie di utopia, di un abbattimento di barriere, di piccoli paraventi culturali che mettiamo uno di fronte all’altro, per cui non riusciamo a comunicare”. I ricordi, assemblati da Pablo Pistolesi senza alcuna censura, sono ricchissimi di riferimenti culturali e politici, e non nascondono nulla, neanche in merito all’uso delle sostanze psicotrope. Anzi, l’opinione diffusa tra tutte le voci è che proprio il drastico cambio nell’assunzione di additivi sia stato uno dei motivi della trasformazione (se non del declino) dei rave negli ultimi anni. Nello spirito originario delle tribù di tutta Italia, le “smart drug” erano una componente quanto la musica, la consapevolezza politica, persino il rispetto nella gestione e nella condivisione degli spazi occupati. Con il proliferare della ketamina, e poi della cocaina e dell’eroina, spesso il consumo è diventato fine a se stesso, ed è stato quando, come scrive Timothy, “la farmacia aveva preso il sopravvento sulla musica” con tutte le conseguenze prevedibili e immaginabili. Non è solo quello: cresciuto in modo esponenziale, l’underworld dei rave è stato fagocitato certi suoni ormai di ritrovano ovunque, dagli spot televisivi alle sonorizzazioni sulle passerelle. Qui vale ancora una testimonianza diretta, quella di Violentina: “Sono andata anche a Roggwil, in Svizzera, a un megarave sponsorizzato da Redbull. Era roba supercommerciale da diecimila persone, forse di più, con file di pullman dall’esterno... Uno schifo tremendo”. La (brutta) sorpresa è comprensibile perché alla fine rimane pur sempre l’idea di Kainowska, “il viaggio che tutto questo sia contro il sistema”, e che tra le sue svolte, rivela un’umanità brulicante di vita.
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