Quando Federica D’Amato intraprende il diario di un anno vissuto senza perdere il contatto con la realtà della parola si poteva aspettare di giungere alla definizione di un esercizio di stile, almeno a prima vista, un compito per sollecitare quel minimo di disciplina che richiede la scrittura, un esperimento letterario destinato a evidenziare il metodo più che la sostanza. Forse un modo per aprire e chiudere una parentesi, trovare un guado o isolare un segmento, comunque un’esigenza, una necessità, per non dire un’obbligo o un’imposizione. Frase dopo frase, invece la formazione di Un anno e a capo prende una piega insolita e affascinante: Federica D’Amato si accorge che “i giorni dei calendari andavano avanti mentre quelli della mia vita tornavano indietro” e l’attrito con “il mestiere di vivere” produce scintille. Come un soldato o un prigioniero che conteggia alla rovescia quanto manca alla fine, che poi è ancora un nuovo inizio, Federica D’Amato parte prendendo le distanze dalla realtà, cercando di spiegare e di spiegarsi le possibilità che prosa e poesia possono offrire nel coltivare l’arte della sopravvivenza. L’appunto del giorno 342 dice che “il romanzo non può e non deve disperdersi completamente nella vita: la narrazione deve creare una zona d’ombra dove il significato va a ristorarsi, non visto, non trovato, non individuabile, eppure palpitante”. Poco più in là, e siamo al 336, la nota quotidiana spiega che “la poesia è una chiave girata nel tempo. Quando arriva il linguaggio nella stanza della realtà”. Più ci si inoltra, e più Un anno e a capo si rivela una moltitudine, con sbalzi di tono, ritmo, dimensioni perché poi il progetto di Federica D’Amato è più istintivo che razionale come illustra alla tappa numero 321: “Ogni giorno prendo una frase e inizio ad abitarla fino a sera, quando il sonno fa crollare le parole. Ad ogni giorno la sua frase, ad ogni frase una caduta”. L’atterraggio, va detto, è la parte più difficile che però in Un anno e a capo si risolve, nell’insieme, con un delicato equilibrio, dovuto all’alchimia di aforismi (233: “I pensieri creano desideri: educare il pensiero, fermarlo, addolcirlo verso desideri creati per la prima volta”), di ricordi (217: “L’albero, la foglia, il taglio d’una luce, il muro d’una casa alle quattro del pomeriggio, i soffitti delle estati, i nonni degli inverni, i bauli e i chiodi di ruggine. Sono questi i santuari che danno luogo all’infanzia, queste le reliquie della mente dove, prima o poi, il bambino ci costringe a fare ritorno), di sacrosante polemiche (190: “Se quello del poeta è un lavoro-modo analogico come cazzo fa a stare su facebook?”), di letture (in ordine sparso: Eugenio Montale, Amelia Rosselli, Renzo Paris, Walter Benjamin), di visioni (75: “La donna pescatore che ha ancora molto da dire ai suoi pesci, quando viene la sera, nella scienza abbagliante della luna, quando li aspetta a riva sulla soglia della morte, con la violenta esca del suo cuore”) e di paesaggi (68: “La sottilissima scienza della debolezza quando i fili d’erba piegano il vento, la tenerezza dei cieli cade nelle preghiere degli alberi, e tace in riposo l’acqua che ha terminato la sua corsa”). Una ricchezza che si fa via via più rarefatta e misurata finché Federica D’Amato ormai alla fine o all’inizio (che, come vuole Wallace Stevens, coincidono) si accorge che, in definitiva, “è quando non hai altra scelta se non quella di rinunciare che entri nel regno della libertà” (4). Con un ultimo (impossibile) desiderio, rimasto inalterato nel corso di Un anno e a capo: “Vorrei avere scritto tutte le parole di Cesare Pavese, ma più di tutto, avrei voluto salvarlo”. Sì, c’è un destino che ci sfugge e uno che ci raccoglie.
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