Le Lezioni americane si presentano con un piccolo rebus numerico, che non sarebbe spiaciuto a Italo Calvino. Delle Sei proposte per il prossimo millennio, al centro del ciclo di conferenze tenuto ad Harvard, ne sono giunte a destinazione cinque. La sesta, ispirata al Bartleby di Melville e dedicata alla Consistency, rimane confinata agli appunti, dove tra l’altro si trovavano riflessioni per altre due lezioni, per un totale di otto. L’ultima aveva un titolo, a sua volta pratico ed enigmatico nello stesso tempo, Sul cominciare e sul finire, che comunque sottintendono l’inizio e la fine impliciti a un libro. Più che nelle Lezioni americane, Italo Calvino lo spiegava partendo dalle pagine di introduzione a Il sentiero dei nidi di ragno: “Le letture e l’esperienza di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con essa. Che i libri nascano sempre da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l’altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini”. Se quella era la partenza, la destinazione è la certezza che “ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. Calvino ci arriva in conclusione alle Lezioni americane dopo aver elencato, discusso, ragionato, letto e affrontato Balzac, Barthes, Cyrano de Bergerac, Thomas De Quincey, Emily Dickinson, Douglas Hofstadter, Ignacio de Loyola e Henry James, Robert Musil e Charles Perrault, Proust e Shakespeare, Charles Perrault e Raymond Queneau, Paul Valéry e Jonanthan Swift, Carlo Emilio Gadda e Thomas Mann, Dante e Petrarca, Kafka e Kundera, Flaubert e Mallarmé, ovvero “la letteratura come ricerca di conoscenza”. La prima delle “proposte” illustra come Italo Calvino abbia “cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”, inseguendo quella “leggerezza” da applicare alla lettura (“Ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna avere fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini”) e così nella scrittura (“Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare”) come nel pensiero in generale. Dice, infatti, Calvino: “Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”. È plausibile che la prima lezione valga pietra angolare nell’identificare la “letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere”. Gli elementi del confronto letterario e politico, a cui Calvino non si è mai sottratto diventano poi uno stimolo nell’indagare la “rapidità”, nello stabilire le connessioni tra “un legame verbale” e “un legame narrativo” all’interno della brevità del racconto, della fiaba e della novella, dove vige quella legge che “è un segreto di ritmo, una cattura del tempo che possiamo riconoscere dalle origini: nell’epica per effetto della metrica del verso, nella narrazione in prosa per gli effetti che tengono vivo il desiderio di ascoltare il seguito”. Si tratta di sviluppare “una velocità mentale” che sappia, in estrema sintesi, ripristinare una corretta “visibilità” a fronte di “una crescente inflazione d’immagini prefabbricate” e di inseguire quella “esattezza”, perché la letteratura possa “creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio”. Non abbiamo molti altri strumenti ed è per quello che, alla fine, le Lezioni americane si sviluppa in quella che Calvino chiama “l’apologia del romanzo come rete”, che altro non è, se non la certezza che “la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute”. Fondamentale.
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