sabato 26 gennaio 2019

Claudio Magris

Gli Alfabeti di Claudio Magris rispecchiano la sua propensione a vedere tutto come parte di un ampio movimento, a partire dalla considerazione che “la letteratura è un continuo viaggio fra la scrittura diurna, in cui un autore si batte per i propri valori e i propri dei, e quella notturna, in cui uno scrittore ascolta e ripete ciò che dicono i suoi demoni, i sosia che abitano nel fondo del suo cuore, anche quando dicono cose che smentiscono i suoi valori”. L’approccio critico e analitico è trasversale ai temi trattati dalla letteratura e le letture sono numerose e poliedriche: Salgari, Kipling, Cervantes, Borges, DeFoe, Camus, Novalis, Grillparzer, Kafka, Turgenev, Sologub, Kraus, Walser, Musil, Ibsen. Se la cultura mitteleuropea (“un mondo di ex e un mondo ex”)  è la costante degli Alfabeti, compresi gli scrittori di Praga (Urzidil, Hrabal, Marek) il confronto con la tradizione anglosassone è altrettanto continuo (DeFoe, Melville, Faulkner). Gli Alfabeti radunano molte voci diverse e dissonanti che hanno in comune la forma del romanzo intesa da Claudio Magris come “il genere letterario dello stadio adulto, ossia della moderna età del lavoro, ed è la storia del rapporto fra l’individuo e i fini oggettivi del processo sociale, un rapporto visto ora come dolorosa antitesi fra poesia del cuore e prosa del mondo ora come conciliazione. Il romanzo è avventurosa conquista del mondo ma, molto più spesso, odissea del disincanto e della delusione”. Da Omero in poi, dentro quella cornice, per Claudio Magris “ogni scrittore conosce, più o meno intensamente, l’esperienza estraniante e creativa di quest’incontro con un sosia o almeno con una componente ignota o perfino sgradita di sé stesso. Se è un vero scrittore, la lascia parlare anche quando preferirebbe dicesse altre cose”. Magris ha il gusto, l’eleganza e la capacità di annodare ogni singolo libro all’idea di scoperta, di avventura che traduce nell’idea che “la vita è insieme questa fonda oscurità e questa luce fioca ma tenace. Le filosofie, le religioni, le articolate visioni del mondo devono responsabilmente scegliere tra queste due verità, pur facendo i conti con entrambe; devono dire se prevale la luce o la tenebra, se l’esistenza è illuminata da un significato o se è precipitare nell’abisso. La letteratura invece non ha doveri di coerenza ideologica, non ha messaggi da proporre né sistemi filosofici e morali da enunciare; può e deve rappresentare la contraddittoria esperienza del tutto e del nulla della vita, del suo valore e della sua assurdità. Per questo lo scrittore più grande è spesso quello che non sembra avere una filosofia e forse nemmeno una personalità precisa; come Shakespeare, è un nessuno che parla per tutti, dando voce alla disperazione come alla felicità”. Dalla lettura alla scrittura, il passo è, almeno per Claudio Magris, simultaneo, ma non indolore perché “scrivere, in certi casi, significa pure dar voce, anche senza accorgersene, a quelle esperienze che non sono state utilizzate e rielaborate nella consapevole costruzione della propria personalità e della propria visione del mondo, ma che sono rimaste dimenticate e sepolte in qualche sottoscala dell’anima, come materiali non adoperati per costruire o arredare la propria casa”. Neanche a dirlo, Claudio Magris preferisce gli outsider ai best seller e ricorda Vento sottile di Stefano Jacomuzzi o Dalla vita di un fauno di Arno Schmidt per non dire di Prima della fine di Ernesto Sabato e Aurora boreale di Drago Jancar, ma anche Chinua Achebe o Jamaica Kincaid come esempi del fatto che “la letteratura è manipolazione, falsificazione, imbroglio e menzogna, ma ciò che la fa vivere è la sua nostalgia della verità e della vita” e “cerca di coprire e addomesticare l’orrore originario della vita, ma contemporaneamente non può fare a meno di scatenarlo, squarciando sé stessa e la propria ordinata tessitura”. Gli Alfabeti di Claudio Magris sono, in effetti, piccole lezioni che, nella loro brevità, colgono però la letteratura in una posizione vitale, non accademica, non elitaria, ricordando, scrittore dopo scrittore, e romanzo dopo romanzo, che “forse la funzione di ogni arte, a differenza della filosofia o della religione, è quella di raccontare e rappresentare ciò che succede al cavallo che ci tira giù o meglio a noi quando lo lasciamo a briglia sciolta e lo seguiamo, non solo in disordinate ma forti passioni, bensì pure in vane astiosità, anche nelle invidie testimoniate da quegli insulti fra poeti, forse inevitabili nella debolezza umana”. La letteratura diventa così una mappa, un codice, quell’insieme di Alfabeti che spiegano, in modo molto pratico, come “un’idea, per essere efficace e agire sulla realtà, deve diventare un’energia. Infatti a un agorafobico non basta sapere razionalmente, per sfatare la sua angoscia e attraversare una piazza, che in essa non ci sono pericoli, ma ha bisogno che questa conoscenza sia divenuta sentimento spontaneo, vissuto con tutta la sua persona, anche con il corpo, e non solo con la mente. Questo vale per tutte le convinzioni, pensieri, stati d’animo e affetti di un individuo o di una collettività”. Come un naufrago che avvista qualcosa all’orizzonte e non sa se è un’isola o soltanto un miraggio ma, in ogni caso, non può fermarsi. 

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