giovedì 20 settembre 2018

Francesco Biamonti

Per i passeur sui rilievi dell’entroterra ligure, il tempo scivola come la brezza sulle rocce, impalpabile e costante. L’attesa di un varco, la speranza di una destinazione, i ritagli minuziosi di un paesaggio avaro, ruvido, contorto come gli ulivi, spiazzato dalla luce e inasprito dal sale mettono i personaggi di Vento largo nella condizione di lasciare le colture per dedicarsi ad accompagnare “nomadi e viandanti” oltre la frontiera con la Francia. Condividere la clandestinità per guadagnarsi da vivere diventa una resa perché, come Francesco Biamonti lascia dire ai suoi passeur, “è destino di noi esseri deboli, di noi uomini cambiare strada. Sotterfugi per vivere”. Il compenso è relativo, minuscolo, sproporzionato rispetto all’impegno di trovare la sicurezza di un varco attraverso sentieri brulli e impervi e anche nei confronti di un’etica solida e condivisa (“Non abbiamo mai lasciato nessuno di qua del confine”), per quanto fondata soltanto sulla parola. Se c’è una certezza, in questi passaggi notturni e segreti, viene soltanto da una conoscenza del territorio che va ben oltre i segni sulle mappe. Se la speranza è sempre che “siano un po’ di meno e un po’ diversi i prossimi pellegrini”, la forma concreta che accarezza il Vento largo sono le curve delle colline, dove persino le abitazioni e i vicoli sono incastrati nell’arenaria, e avvolti in un alveo naturale e selvatico. Di orizzonti ne rimangono due, perpendicolari come il Vento largo rispetto alla rotta tracciata. Il primo, vicino, oltre i crinali, resta una meta invisibile che i passeur conoscono e temono e che i fuggitivi anelano, con l’incoscienza di chi non ha nient’altro da perdere, al punto che l’esilio appare come una fortuna. L’altro è un abbaglio distante, infinito, scintillante. Lo spettacolo del mare visto dalla terra rimane un inganno. Francesco Biamonti l’ha identificato con scrupolosa attenzione nella dissertazione citata da Sergio Buonadonna in Finestra sul Mediterraneo: “A guardarlo dalle nostre colline, della Liguria occidentale, sale all’orizzonte come un immenso edificio di luce. Fa sognare partenze, voli supremi. A volte è bianco e fa l’effetto di una nuvola; più spesso è di un azzurro che sconfina; se il vento lo ghermisce appare solcato di cammini, specie la sera. Ma in fondo che mare è? A un’apertura, a una libertà metafisica non corrisponde una realtà geografica: è quasi un lago e le sue rive sono state spesso insanguinate e lo sono ancora adesso”. La voce di Francesco Biamonti è la risposta ai contrasti attraversati dal Vento largo: le parole limate una per una, gli accenti che riflettono più il ritmo umano che quello delle frasi, un glossario di vocaboli grezzi e spontanei, uno scenario calcareo di rovina e abbandono, mitigato dalla dolcezza del racconto. La vocazione, in Vento largo più che altrove, è indirizzata ad “aiutare le cose ad esistere, far sì che s’instauri fra gli uomini e le cose un dialogo”. In questo ibrido, tra una natura impraticabile e una civiltà al minimo storico, la forma delle immagini attinge alla pittura, alla poesia, al dialetto e alla musica, e le volge in uno stile lirico, riflessivo, raffinato eppure molto acuto nel sottolineare i conflitti, e gli incontri. È la lingua delle Creuza de ma di Fabrizio De André, il sapore agrodolce dell’entroterra ligure al confine con la Francia, una frontiera che, in Vento largo, unisce, più che dividere.

venerdì 7 settembre 2018

Andrea Staid

I dannati della metropoli è frutto di quella che gli antropologi chiamano “osservazione partecipante”, un metodo empirico che porta l’osservatore a diventare “un catalizzatore della comunicazione, capace di stimolare l’espressione delle percezioni, esigenze, aspettative e fantasie degli osservati”. È quello che ha fatto Andrea Staid scendendo a compromessi con quella che che Philipp Bourgois chiama “cultura di strada” per scoprire le vite ai margini e i rituali della resistenza dei migranti dentro la città, e nello specifico, Milano. Un lavoro fatto di analisi, ricostruzioni, valutazioni e, più di tutto, di interviste, come se Andrea Staid avesse seguito l’indicazione di John Berger quando diceva che “per provare a capire l’esperienza di un’altra persona è necessario smantellare il mondo come lo si vede dalla posizione che in esso occupiamo, e riassemblarlo come lo si vede dalla sua”. Il processo pare complesso, senza l’ausilio di un minimo sindacale di empatia, che è alla fonte del confronto con I dannati della terra. Come scrive nella prefazione Franco La Cecla: “Sono storie disperate e disperanti, ma anche storie piene di vita, dove si capisce che l’immigrato dichiarato fuorilegge a un certo punto trova una propria ridefinizione dell’esserlo. Storie di immediata disillusione, di rivolta, di voglia di vivere nonostante. L’antropologia con la sua vocazione a testimoniare è uno strumento perfetto da questo punto di vista: ci costringe a renderci conto di come la vita quotidiana altrui non sia tanto differente dalla nostra, e nei panni dei marginali potremmo tranquillamente trovarci noi”. Se all’origine c’è il viaggio, che contiene un elemento fondamentale di speranza, pur nelle le brutali condizioni con cui si sviluppa. Una frase di Nma, partito dalla Nigeria, è emblematica: “Il viaggio per lo schifo che faceva non è andato neanche male”. Andrea Staid la chiama “una libertà negativa” e la definizione ha una sua importanza: arrivati in Europa, le frontiere imposte con la violenza,  la detenzione, i ghetti, sono soltanto le conseguenze di leggi che tendono a militarizzare i flussi.  Se è vero, come è vero che “è la strutturazione normativa a produrre, per il migrante, uno status giuridico notevolmente precario”, lo è perché “le nostre società hanno bisogno di agitare lo spettro dei nuovi barbari per ottenere due effetti significativi: da un lato la criminalizzazione dei migranti che consente di sostituire le politiche sociali con quelle penali e di controllo, dall’altro consente nel dibattito pubblico di trasformare il concetto di sicurezza sociale come la priorità da affrontare”. A quel punto  la metropoli dei dannati diventa “asimmetrica” e si sdoppia: “la città legittima pronuncia parola di paura e sospetto verso quella illegittima, ma ricorre a quest’ultima per un gran numero di servizi e prestazioni: dal lavoro domestico a quello in nero dei cantieri, dalla domanda dei vari tipi di prostituzione a quella di stupefacenti, gioco d’azzardo o credito illegale. La città illegittima è titolare di un’offerta di servizi la cui clientela è costituita in gran parte da membri della società illegittima”. Nella difficile, ma inevitabile convivenza, I dannati della metropoli “ci aiutano a capire meglio la contemporaneità, a vivere l’alterità attraverso l’incontro; non voglio affermare che sia semplice, molto spesso questo incontro è fatto di liti, rabbia, insoddisfazione e non sopportazione, ma l’importante è vivere l’alterità più che analizzarla”. Per trovare il luogo ideale a provarci Andrea Staid non è dovuto andare lontano, tanto è vero che ha dedicato l’ultima parte del libro all’enclave di viale Bligny 42 nel pieno centro di Milano, zona porta Romana, una realtà cosmopolita complessa e uno spettro di emozioni tutto da decifrare, un traballante laboratorio dove sperimentare “una tolleranza esperita, vissuta ogni giorno, nelle città, costruita strada per strada, sui luoghi di lavoro e di lotta, con la consapevolezza che non esistono libertà regalate ma solo libertà costruite e conquistate”. A dispetto dei luoghi comuni e delle banalità assortite, non ci sono molte altre alternative.