mercoledì 3 ottobre 2018

Claudio Magris

Nei Microcosmi di Claudio Magris si condensando l’esperienza del viaggio, della scrittura, della memoria e della poesia. Una fitta tessitura di impressioni, vocazioni e passioni che si aggrumano attorno all’idea di una guerriglia, una forma di resistenza alla banalità, alle stupidaggini, alla vacuità di un linguaggio stiracchiato e compromesso. Si comincia proprio con il movimento lungo le coordinate mitteleuropee care a Claudio Magris. Il più delle volte si tratta solo di un caffè, di piccoli anfratti, di lagune o di isole, di villaggi o borghi alpini perché “viaggiare è anche una perdente guerriglia contro l’oblio, un cammino di retroguardia: fermarsi a osservare un tronco dissolto ma non ancora del tutto cancellato, il profilo di una duna che si disfa, le tracce dell’abitare in una vecchia casa”. Da una parte i Microcosmi collimano con l’autobiografia di Claudio Magris dato che “ogni viaggio è soprattutto un ritorno, anche se il ritorno, quasi sempre, dura assai poco e viene presto l’ora di andarsene”, dall’altra rappresentano i punti focali di una prospettiva molto più ampia, e tutta da esplorare. Succede quando “la storia rientra lentamente nella geografia, nella decifrazione dei segni e dei solchi scavati nella terra. Il paesaggio si sgretola lentamente, le quinte del teatro di posa scivolano quasi scosse da un lieve terremoto; primi piani indietreggiano e monumenti traballano, altre cose affiorano e avanzano, utensili, giacche lasciate appese nelle malghe abbandonate, corone dipinte negli stemmi. Il tempo della geografia è anch’esso rettilineo al pari di quello storico, perché pure le montagne e i mari nascono e muoiono, ma è così grande che s’incurva, come una retta tracciata sulla superficie della terra, e stabilisce un diverso rapporto con lo spazio; i luoghi sono gomitoli del tempo che si è avvolto su se stesso. Scrivere è sdipanare questi fili del tempo che si è avvolto su se stesso, disfare come Penelope il tessuto della storia”. La citazione omerica è un po’ la parola d’ordine per infilarsi nei Microcosmi: se “viaggiare, come raccontare, come vivere, è tralasciare”, in questo continuo processo chimico di creare, smontare e trasformare “narrare è guerriglia contro l’oblio e connivenza con esso; se non ci fosse la morte, forse nessuno racconterebbe. Quanto più umile, vicino fisicamente alla terra, humus è il soggetto di una storia, tanto più si avverte il rapporto con la morte. Le vicende degli uomini, famosi e oscuri, rifluiscono in quelle delle stagioni con le loro piogge e nevicate, in quelle degli animali e delle piante, degli oggetti con la loro tenacia e la loro consunzione”. Si tratta di una meta a suo modo definitiva: la scrittura deve essere corroborata dall’esercizio della memoria, e viceversa. Un processo provato sul campo e teso a scoprire e rinnovare storie di montagna e di frontiera, che nell’ambito dei Microcosmi appaiono incredibili, oppure no. Il paradosso è spiegato dallo stesso Claudio Magris: “In ogni caso, chi ha vissuto quelle vicende straordinarie tende a tacere; forse perché non sa parlare, forse perché pensa che, a parlarne, le si falsificherebbe. O forse perché, mentre si vive un’avventura, sembra qualcosa di eccezionale, ma poi, tornati a casa, quando ci si accinge a raccontarla, non si trovano le parole; quelle cose che parevano chissaché sono sparite, volate via, o non sembrano più così mirabolanti, e a poco a poco non viene in mente niente, dopotutto forse non è successo nulla e non si sa cosa dire”. È qui che la funzione mnemonica ritrova il suo naturale alveo nella scrittura, confermandosi una corrente fluida e dinamica (“Forse si ricorda anche e soprattutto non ciò che si è vissuto, ma quello che ci è stato raccontato. Le cose succedono sempre agli altri. La memoria è anche correzione, ritocco del bilancio, giustizia che dà a ciascuno il suo e dunque restituisce ciò che ci sarebbe spettato”) che trova uno sbocco naturale, probabilmente inevitabile, nella poesia. Ancora una volta Claudio Magris si avvicina con circospezione, illustrando come “la poesia dice l’assenza, qualcosa o qualcuno che non c’è più. Poca cosa, una poesia, un cartellino messo su un posto vuoto. Un poeta lo sa e non le dà troppo credito, ma ne dà ancora meno al mondo che lo celebra o lo ignora”, per poi celebrarla e condividerla nei suoi Microcosmi come “pietas, umiltà e fraterno piacere di vivere”. Con un’avvertenza (indiscutibile) che suona sempre più attuale: “La correttezza della lingua è la premessa della chiarezza morale dell’onestà. Molte mascalzonate e violente prevaricazioni nascono quando si pasticcia la grammatica e la sintassi e si mette il soggetto all’accusativo o il complemento oggetto al nominativo, ingarbugliando le carte e scambiando i ruoli tra vittime e colpevoli, alterando l’ordine delle cose e attribuendo eventi a cause o a promotori diversi da quelli effettivi, abolendo distinzioni e gerarchie in una truffaldina ammucchiata di concetti e sentimenti, deformando la verità”. Da leggere e rileggere, spesso.

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