Ha ragione Amedeo Anelli quando scrive nel corso dell’Invernale VIII: “Non ci salverà la teosofia né il viaggio nella mente, ma nei prodigi della percezione il corpo vivente, e l’interrogazione sempre ricominciata, le strade della libertà e il no per affermare non arreso”. Proprio così Invernale e altre temperature affronta e definisce “l’estraneità che abita il mondo”: con una misura delicata e intensa, affacciandosi su “un impasto di terra e luce”, quello della pianura, dove la scrupolosa attenzione di Amedeo Anelli è riservata allo scorrere di una roggia come a un lieder di Schubert, alla definizione del pannerone e della galaverna o a un richiamo a Italo Calvino. Nessuna distinzione: i versi sono liberi, con o senza rime, in piccole stanze o quasi in piccole prose che fluttuano coraggiose e indipendenti, come succede in Nel mutare degli accenti: “Per quel berretto di fili di pioggia, calato sui rami la natura si dilata in assolo, i fili del mondo s’intrecciano anche in noi, nei tempi paralleli del riverbero e del silenzio, come alla fine di una riga andiamo a capo”. È una delle poesie dedicata alla poetessa e traduttrice (verso il francese), Irène Dubœuf: nella sua nota, dice che Invernale e altre temperature “è fondato sulla stessa tonalità, e la partitura è scandita da accordi su tre parole, luce/freddo/suono, declinati all’infinito in variazioni di intensità, il suono può arrivare perfino al silenzio, il freddo fino al caldo, la luce, fino al buio”. I contrasti si riempiono di senso, di calore, di musica e di voci perché la pianura, avvolta in una lattiginosa essenza, non le disperde e le tramanda attutite, con una dolcezza unica. La nebbia, come nota ancora Irène Dubœuf, è il filtro ideale di una poesia sostenuta dallo “sguardo attento e cuor sereno”, e si capisce perché: è il momento in cui l’acqua è sospesa tra la terra e il cielo. Gli elementi naturali e i fenomeni climatici (il vento, il gelo) che si agitano sopra e dentro “una campagna sommersa” sono una chimica delle possibili alterazioni dell’acqua e in Invernale e altre temperature le sue metamorfosi seguono quelle delle parole, dello spazio e del tempo, mentre “il paesaggio estraneo a sé, ci guarda come in sogno”. Ed è vero che “nella nebbia più luce non è più visione”: rende “l’ombra delle cose” visibile, la realtà trova i contorni del sogno e/o del ricordo, oppure una voce dall’infanzia che ritorna come una melodia ricorrente. Frammenti, dettagli, e piccoli particolari si incastrano nell’insieme determinando “l’immagine, la forma e la condizione”: il fuoco della cucina economica dove arde la legna e la fiamma è imprigionata e “i rossi cerchi arroventati della stufa” si liberano in disegni concentrici, mentre si rivela “un mondo insospettato, ed irriflesso nel grande freddo e nella mescolanza dei corpi”. Certo, queste magie succedono se “tutti questi segni se li sai leggere”, e Amedeo Anelli non solo sa riconoscere “ciò che basta nella poca luce contro il mattino”, ma riesce a trasmettere con un afflato partigiano, le dimensioni segrete dell’inverno, della pianura, di una terra che appare inevitabilmente orizzontale ed è invece molto profonda. Senza battere ciglio, anzi con nonchalance e spontaneità, Amedeo Anelli passa quindi dall’omaggio a maestri e amici (Dino Formaggio, Guido Oldani, Franco Loi, Roberto Rebora) alle riflessioni filosofiche, dalle tradizioni popolari all’osservazione acuta della vita quotidiana nella campagna, con uno spiccato senso di appartenenza, perché “se senti questa musica, fatta di caldo buono e silenzio”, sei nel posto giusto”, come scrive in Invernale II. E sì, se c’è qualcosa che ci può salvare è la poesia, e la nebbia.
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