La poesia di Gianni Marchetti è piena di “blue note”, una caratteristica sonora del blues e del jazz che viene celebrata proprio come prologo a Lo sbadiglio dell’elefante. Suona un po’ come excusatio non petita (“Forse i puristi della poesia troveranno le note dissonanti, i musicofili troveranno le note ridondanti. Falsa ogni premessa non sono in venta di fugare l’incertezza, tanto lo so, lo canta Paolo Conte con il suo kazoo, non si guadagna con le note blu”), ma è utilissima per introdurre l’estrema musicalità che si estende con Lo sbadiglio dell’elefante. Biagio Marin, Vivian Lamarque e Borges sono le “cotte giovanili” su cui Gianni Marchetti costruisce le fondamenta della sua poesia, con il tributo gergale al primo (Gente meccanica: “Siamo gente meccanica, di pìcciol affare, sempre intenta ad aggiustarsi o a farsi aggiustare”), la raffinata eleganza della seconda (per esempio in Alternata, incatenata, baciata: “Poesia è quando io e te facciamo rima”) e l’enigmatica natura del terzo (che si nota in Il giusto: “Non si sbaglia mai troppo né di poco si sbaglia sempre il giusto”). Detto questo, Gianni Marchetti giostra con le rime con leggerezza, ma anche con un saggia profondità nel toccare le parole (“L’amore si fa con due mani, una che tiene il presente, l’altra che fruga il domani”), e nella prima parte, giustamente intitolata Non farla lunga, si scopre che c’è un’interlocutrice e una destinataria femminile. All’inizio in incognito e un po’ defilata, ma decisamente più presente nella seconda tranche, Poi passa. Protagonista è spesso e volentieri “il sacrificio dell’amore”, e Gianni Marchetti, sfoderando quell’ironia che è un ingrediente irrinunciabile delle sue liriche, arriva a spiegare “a cosa servono di notte le poesie d’amore”. Le ipotesi sono parecchie e una particolarmente brillante, che inaugura proprio la sezione centrale di Lo sbadiglio dell’elefante, Sentinelle, gioca con i ruoli degli amanti, proprio come Sentinella, il classico racconto fantascientifico di Fredric Brown, scambiava le identità dei combattenti, condividendo il sottinteso che c’è sempre qualcosa di alieno in noi. Ed è così l’incipit della stessa Poi passa a definire la missione: “Il compito delle persone adulte dovrebbe essere liberare se stessi e gli altri dai demoni molesti”, e qui diventa fondamentale il ruolo della poesia (definita in Nubili “la sorella più fortunata della follia”), a cui in modo molto spontaneo e naturale Gianni Marchetti associa la musica con il jazz (soprattutto) e il rock’n’roll nell’ultima, effervescenze sezione, Strumenti diversi sotto innumerevoli dita. Un titolo eloquente per un capitolo che ha per protagonisti musicisti particolari come il “pianoforte speciale” di Michel Petrucciani o un ritratto molto fedele delle doti misteriose dei bassisti in Contro e abbasso (“Il contrabbassista di solito è uno calmo che se la tira ma non troppo. È lo scopo nascosto di un’armonia e il suo finto contrario. È una vecchia zia che la sa lunga è lo sbadiglio dell’elefante nella giungla”). D’altra parte, il ritmo è una questione di coppia e diventa evidente in Tempo debito, dove si capisce che “nasciamo tutti batteristi, poi diventiamo ansanti cantanti”, o forse poeti, che non è molto diverso. Nello stesso modo scorrono i ritratti e le avventure di John Scofield, John Coltrane, Sonny Rollins, Clifford Brown, Wynton Marsalis, Louis Armstrong, Miles Davis, Pat Metheny, Glenn Gould, Dylan, Frank Zappa, con una bella dedica a Roy Buchanan, grande e sfortunato chitarrista (Gianni Marchetti ha un debole per i loser) e un’altra, irriverente a Eric Clapton sulle cui note, alla fine, si scopre il nome dell’altra metà a cui è indirizzato Lo sbadiglio dell’elefante, ed è una sorpresa poetica anche quella. Da scoprire.
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