Il lavoro di Tina Merlin è imponente e supera di gran lunga l’aspetto giornalistico. Diventa un segmento ineluttabile della storia italiana. Guardando crescere la diga del Vajont, Tina Merlin ha visto il futuro conoscendo il passato delle valli, della montagna, dei torrenti e del fiume, ma soprattutto attingendo alle storie delle persone e non perde tempo visto che già nell’introduzione scrive come “il potere politico era al sicuro sostenuto e foraggiato da coloro ai quali si prostituiva”. Il suo non è un vago atto d’accusa ideologico. Sulla pelle viva raccoglie nomi e cognomi, firme sugli atti (o, più spesso, omissioni), corrispondenze e valutazioni tecniche e i dati sono tutti documentati con un lavoro di ricerca assiduo: Tina Merlin vive l’intuizione di assistere a come si costruisce una catastrofe, ma parte da valutazioni più concrete dello stesso cemento armato di cui è costruita la diga. È il destino della gente di Erto e Casso, che viene sfrattata, espropriata, privata della libertà di muoversi sulla propria terra in nome della diga e dentro l’intrigo tra iniziativa privata e stato, il silenzio dei ministeri, le cene e le omissioni, la trascuratezza degli organi di informazione. La solita Italia provinciale e benpensante che si rivela assoggettata al potere, quale che sia la forma assunta e che Tina Merlin scopre quanto sia inadeguata di fronte alle sfide della modernità di cui la diga del Vajont non è soltanto un simbolo architettonico, un monumento eclatante e visibile a distanza. È una componente essenziale dell’elettrificazione nazionale ed è lì che i privati fiutano l’affare sfruttando al massimo, in nome della “pubblica utilità”, le possibilità di profitto. Con il disprezzo dell’ambiente, degli abitanti, dell’idea stessa della “pubblica utilità”. Tina Merlin è incalzante, lo sente Sulla pelle viva, e partecipa in prima persona con i suoi articoli tutta l’angosciosa attesa. C’è una montagna che sta “camminando” e tra le numerose avvisaglie riporta un disperato telegramma del sindaco del 22 luglio 1963 alla prefettura di Udine evidenzia “inspiegabili acque torbide lago, continui boati et tremiti terreno comunale”. Non ottiene alcuna risposta, i lavori continuano indifferenti alle scosse telluriche, alle sollecitazioni e ai segnali che arrivano da tutte le postazioni sul monte Toc. Tina Merlin indica già le responsabilità ricordando come “uno stato onesto verso i suoi cittadini non avrebbe dovuto prendere in consegna un impianto avariato come quello del Vajont che non è ancora giunto, proprio per questo, alla fase di collaudo e quindi alla certezza del suo buon funzionamento. Probabilmente in nessun altro posto del mondo ciò sarebbe accaduto se non, come in Italia, per complicità e corruzione politica”. Sarà per quello che i funzionari (pubblici e privati) si permettono di andare “in ferie” o di farsi trovare “indisposti”, come se avessero voluto prendere le distanze dall’incombente realtà, ma “nella grande anormalità del tutto, che dura ormai da tre anni, le anormalità del presente non sono che la tragica fine dell’errato inizio”. Scaduto il tempo, alle 22.39 del 9 ottobre 1963, ciò che era prevedibile divenne inevitabile. A Tina Merlin, oltre al dolore e al rimpianto di non essere stata ascoltata, rimaneva una denuncia. Il tribunale l’assolse con formula piena con la seguente motivazione: “l’autrice dell’articolo, legittimamente usando del diritto di cronaca, si è limitata a rendere le notizie e le impressioni da lei raccolte nel corso della sua inchiesta, e a riportare uno stato d’animo di preoccupazione e ansia che era largamente diffuso tra gli abitanti di Erto e che trovava la sua giustificazione nelle circostanze come acclarate in causa”. La traduzione dal linguaggio giudiziario è semplice: aveva ragione a ripetere gli allarmi. Dopo, la diga restò in piedi, ormai un triste monolite, e sulle montagne e nella valle non vi fu più differenza tra vivi e morti.
Nessun commento:
Posta un commento