La giungla e il grattacielo, il titolo in origine di Da che parte state, esprimeva soltanto una parte, per quanto fondamentale, del lavoro di Mario Maffi, quella relativa al peso specifico degli sviluppi metropolitani nel formarsi della letteratura del conflitto. Era l’inizio così come anticipava a suo tempo Hawthorne: “Tutte le città dovrebbero essere in grado di purificarsi, con il fuoco o con la progressiva rovina, almeno una volta ogni mezzo secolo”. La rilettura e l’aggiornamento, nel corso degli anni, meritavano senza dubbio una più precisa indicazione, adeguata al contesto e alla ricorrente attualità degli argomenti accumulati: lo sviluppo industriale e urbanistico (la città come destino inevitabile e ossessivo) tra il 1865 e il 1920, i rapporti di forza con la mano d’opera, le rivendicazioni economiche e i conflitti sociali restano i temi centrali. L’introduzione delle macchine, intesa come evoluzione tecnologica dei mezzi di produzione, e la fabbrica come luogo in cui si generano ed esplodono le contraddizioni del cosiddetto “sogno americano”, è una componente altrettanto inderogabile “nella descrizione della nuova realtà urbana come luogo di miseria e di lotta disperata”. È lì che prima il giornalismo e via via la creazione di opere narrative più complesse affrontano le mutevoli condizioni e provano a interpretarle. La sfida, nella particolare condizione americana e non solo, è quella riportata da Upton Sinclair in La giungla: “Come può un romanziere sperare di interessare gli amanti della buona letteratura, parlando d’una famiglia che ha trovato la casa brulicante di parassiti, descrivendo tutte le sofferenze, le umiliazioni e i disagi sopportati in seguito a questo, e il denaro, guadagnato con tanta fatica, speso nel vano tentativo di liberarsene?”. Bisogna passare attraverso definizioni e le storie che contengono: il “dime novel”, ovvero trovare le connessioni l’intrattenimento e le lotte di classe, il “passing”, il “muckracking”, il “corporate ideal” di Roosevelt, il “common man” e molti altri luoghi comuni americani, a partire da quello più consumato, il mito della frontiera, che Mario Maffi filtra con un lavoro enorme, e di parte, perché scandaglia con scrupolo e passione le “voci dai margini”, dal basso, dal mondo del lavoro e dalle strade. Via via diventa sempre più evidente una versione alternativa e parallela della narrativa americana attraverso le riletture e le analisi dei lavori di James Fenimore Cooper, Melville, Edgard Allan Poe, Stephen Crane, Frank Norris, Theodore Dreiser. La varietà delle visioni, spesso estreme e contrastanti, è inevitabile, proprio perché, citando il collega Alessandro Portelli, “la letteratura americana è piena di morti e rinascite, sparizioni e riapparizioni, ventriloquismi, travestimenti: tutte metafore della questione dell’identità che ne è un tema portante”. Una miniera inesauribile che Mario Maffi esplora fino ad arrivare a Londra con Il popolo dell’abisso di Jack London, quando ormai Europa e America sono sullo stesso piano nei “tempi moderni” di Charlie Chaplin e rispetto allo sviluppo metropolitano delle città e dell’industria. Altre testimonianze arrivano da Ernest Poole, John Steinbeck, Abraham Cahan fino alle connessioni più recenti a John Cheever, Raymond Carver e James Ellroy, ma è stato Sherwood Anderson a intuirne il nucleo ambiguo ed esplosivo: “Qualcosa non funziona nella vita americana d’oggi e noi americani non vogliamo riconoscerlo. Preferiamo di gran lunga proclamarci un grande popolo e liquidare la cosa in quel modo”. È così che prende forma anche, e soprattutto, una storia diversa degli Stati Uniti attraverso l’obiettivo della letteratura, così come si è evoluta nel corso del tempo, come elemento costitutivo del bene comune, nel dibattito politico e sociale, un ruolo o un profilo che non ha più avuto, almeno con questi connotati. Una lezione bella e importante.