Il primo giugno 1980 i Clash suonano in piazza Maggiore a Bologna, ma in città è già maturata un’esperienza che predilige piuttosto i Crass, seguendo l’idea che “il punk è un vulcano in piena attività e sta eruttando lapilli e lava, cambia continuamente la geografia del paesaggio”. Laura Carroli, protagonista assoluta e indiscutibile di Schiavi nella città più libera del mondo, racconta di anni temerari e coraggiosi, di come ha scelto, perché si tratta di scegliere, di “affrontare un sistema di soprusi, dalla famiglia alla scuola al lavoro”, attraverso la curiosità, la creatività, la sensibilità (politica e non) che è andata scontrandosi con un paese provinciale, gretto, farraginoso, cupo e brutale nelle sue trame più o meno segrete e nell’ostentazione della morale e della retorica. Laura Carroli, poco più che adolescente, lo dice senza esitazione: “Io invece mi sento sveglia, pronta e ricettiva, mentre l’Italia intera mi sembrava addormentata, indietro e ignorante, come la gente che ci guarda con quell’aria di stupore e meraviglia come una vissuta da sempre nella caverna di Platone. Noi ci sentiamo fuori da quella maledetta caverna e andiamo incontro alla luce”. Tutto scritto al presente perché il presente è tutto: il racconto è immediato, senza filtri, sincopato ed effervescente, punteggiato da aneddoti, appunti di viaggio epici (Londra, la meta ricorrente) e comprensivo dello sforzo continuo di sopportare un lavoro in posta che garantisce un minimo di indipendenza e l’urgenza della comunicazione e del costruire qualcosa di unico e originale. Mentre gli altri vestono firmati (Timberland, Moncler e Ray-Ban, come se fossero gadget pubblicitari viventi e ambulanti), i punk trasformano gli abiti, strappano e cuciono, riciclano e risparmiano in anticipo di decenni sulla sostenibilità e sull’economia circolare. Laura Carroli ricorda e descrive con singolare afflato l’applicazione rigorosa del do it yourself, dalle punkzine all’organizzazione dei concerti (sempre un casino), che si scontra con l’ortodossia dei partiti, ma che si rivela l’arma in più per crescere da soli, in pubblico. In un volantino dedicato a Lou Reed, lei e il suo gruppo scrivono: “Noi siamo la gioventù inappagata, quelli i cui gesti nessuno comprende. Per quanto si sforzino di catturarci attraverso dolci profumati, nessuno tocca il nostro punto debole o non vuole, perché sarebbe l’inizio di una sommossa più ampia. Noi siamo la gioventù che sputa sul brodo grasso, che nessuno accalappia. Le cose che desideriamo noi le cerchiamo senza aspettare che da un pulpito uno psicologo/psichiatra/consulente della giunta comunale, trovi il modo di darcele, perché noi sputiamo il succhiotto per metterci a strillare”. Questo autoritratto degli Schiavi nella città più libera del mondo è solo un piccolo riassunto di un’operazione a cuore aperto, senza censure, che vede Laura Carroli dispiegare tormenti, gioie, delusioni, sofferenze: “Mi sento una bambina che non vuole crescere, voglio rimanere sempre giovane, ma le circostanze mi obbligano a prendere delle responsabilità, cerco di scappare ma non davanti ai miei sogni, per i quali sono disposta ad affrontare grandi difficoltà”. Va messo in conto il complesso legame con Jumpy, la creazione dei RAF Punk e dell’Attack Punk Records, etichetta discografica autogestita e alternativa, la vocazione internazionale perché “le idee ci sono, ora si tratta di realizzarle. Bologna nel suo vuoto può diventare un buco nero e attrarre altri come noi”. La musica, la politica, l’amicizia, il sesso, una voglia di vivere fuori dagli schemi trovano nel punk “un tempo veloce, un segno del ritmo accelerato a cui sarebbero seguiti i futuri movimenti. Non era un fiume ma un torrente in piena sul quale ho cercato di navigare mantenendo la rotta senza farmi travolgere”. Ed è così che gli Schiavi nella città più libera del mondo sapranno esprimersi in modo compiuto come scrive Massimo Pirotta nell’introduzione: “La critica radicale alla società fu parte integrante del lavoro culturale dei fondatori dell’Attack Punk, proprio per questo riuscirono a captare i pochi sussulti non allineati di quel periodo e porre l’accento sulle idee che si stavano sviluppando nell’underground”. Verissimo e, non a caso, il finale, per Laura Carroli, è agrodolce, ma coerente con una storia che è davvero punk a tutto tondo. Ammette candidamente che quando l’Attack “aveva infilato un piede nel circuito commerciale, bisognava spingersi dentro con tutto il proprio peso per entrare, ed è allora che ho cominciato a tirarmi indietro”. Come avrebbe detto Joe Strummer, battendosi il petto: viene dal cuore, e si sente.