La madre alla deriva nello spazio, il padre (che è “lo sconosciuto che regalava caramelle piene di droga ai bambini all’uscita delle scuole) perso tra il calcio, la televisione e la birra come è logico che sia per la stragrande maggioranza silenziosa che vive sul pianeta e due fratelli che pensano a fuggire, ed è chiaro che sarà giusto così. Mia madre astronauta comincia con questi presupposti ed è altrettanto evidente che, dopo il primo racconto, bisogna aspettarsi di tutto: la scrittura di Antonio Coletta è elettrica, contagiosa ed è un campo minato. Gioca con i luoghi comuni, il nonsense, la boutade, il calembour, le reiterazioni come se il mondo frammentario in cui viviamo si fosse riflesso in uno specchio rotto. La lingua italiana diventa un curioso argot frutto di un frullatore che gira alla velocità del suono, macinando simboli e icone, da Elvis a Cappuccetto Rosso (uno dei suoi bersagli preferiti), da Beethoven a Hegel alla ricomparsa (sfortunata) di Ettore Majorana. Il tono passa dal cinico al naïf senza soluzione di continuità in una specie di zapping letterario scoppiettante e irriverente, dove una comicità al vetriolo spiazza e coinvolge, con una punta di amaro e lasciando sempre qualcosa in sospeso per il lettore. Succede un po’ in tutte le storie di Mia madre astronauta e, per esempio, in Io amo lei, che parte a razzo già dall’incipit: “Io non ero mai stato felice, poi un giorno mi sono iscritto ai terroristi. Mia madre non era d’accordo, diceva che quella del terrorismo era solo un’altra stupida moda e che se volevo davvero cambiare il mondo dovevo iscrivermi all’azione cattolica”. Tutto rigorosamente minuscolo perché il rapporto di Antonio Coletta con le maiuscole è piuttosto imprevedibile, un po’ come tutto il resto. E così il protagonista ammette: “Io ero sempre stato infelice, poi i capi del terrorismo mi hanno affidato una strage ma ho fatto irruzione nell’appartamento sbagliato. Toc toc”. Da lì in poi il racconto prende un’altra piega, ma dato che i colpi di scena sono all’ordine del giorno, è meglio scoprirseli da soli. Anche perché i racconti di Antonio Coletta hanno il gusto della divagazione e tendono a essere elusivi, come sogni che evaporano al mattino, ma hanno un filo tagliente che non concede un lieto fine, se non in rari casi. L’equivoco è dietro l’angolo, come succede in Prove tecniche d’integrazione tra il popolo italiano e quello bengalese e il più delle volte si nasconde in snodi linguistici fonti di incomprensioni e misunderstanding, giusto per ricordare che La mancata conoscenza della lingua inglese limita la libertà di movimento nello spazio e nel tempo, come recita il titolo di un’altra avventura a Vivacchio nell’Emilia (e se volete cercarlo sulle mappe, auguri). Nei racconti di Mia madre astronauta tutto finisce in un’equazione misteriosa, dove i personaggi scompaiono all’improvviso o riappaiono e spesso sono imprigionati in viaggi temporali che, insieme a quelli spaziali, sono un’ossessione per Antonio Coletta e si capisce anche la strana geografia tra Vivacchio nell’Emilia e alcuni punti cardinali che gravitano attorno o dentro Roma, ma restano inequivocabilmente periferici, così come quella specie di bestiario dove gli esseri umani si accomodano con animali parlanti e pensanti. In effetti, ne succedono di tutti i colori, il finale delle storie è imprevedibile, l’estro di Roberto Bolaño vigila dall’alto, ma sotto l’epidermide dell’ironia e del sarcasmo, affiora il denominatore comune dei nostri tempi che naturalmente Antonio Coletta non declina mai in modo esplicito, ma lascia filtrare in una storia surreale (ma neanche tanto) ambientata addirittura al confine tra le due Coree, dall’altra parte del pianeta. In Saluti da Pyongyang, dove finire in una fossa comune è considerato “estremo antidoto contro la solitudine” ed è un capolavoro compresso in una pagina. Incredibile, ma vero.
lunedì 20 settembre 2021
giovedì 9 settembre 2021
Marco Codebò, Domenico Gallo
Nella letteratura resistenziale, Fermammo persino il vento è destinato a trovare ben presto un posto speciale perché rappresenta un snodo particolare. Pur senza presentare alcunché di inedito, l’antologia acquista un peso specifico perché i racconti sono valorizzati e focalizzati dalla rinnovata lettura di Marco Codebò e Domenico Gallo, che costruiscono nell’introduzione iniziale (soprattutto) e in quelle tematiche che aprono ogni singolo capitolo, una costituzione di senso, attraverso un’analisi importante, che indica un percorso raziocinante sui valori della Resistenza, per una volta, schivando i rischi della retorica, degli anniversari e delle celebrazioni. La vocazione è dichiarata con estrema precisione nel saggio iniziale, Anteriorità della Resistenza, dove i curatori delineano un’aggiornamento, molto utile e molto necessario, dell’idea di Resistenza, spiegando che “resistere è la capacità della singolarità, di mantenersi al di là del rapporto di potere. Ma per far ciò la resistenza deve precedere il momento in cui una certa singolarità si colloca all’interno di un determinato rapporto di forze: la resistenza è la forza che resta prima e fuori. Il passo iniziale della resistenza è infatti l’autonomia dal rapporto di potere”. Il suggerimento trova applicazione pratica nello svolgimento dell’antologia che offre uno spettro pratico ed esaustivo nello stesso tempo. L’origine eterogenea delle storie trova una collocazione coerente proprio grazie a questa struttura che offre una lettura da angolazioni diverse, perché come notano i curatori, “è accaduto infatti, a causa della tragedia della guerra e del progredire dei fronti, che i letterati siano stati protagonisti e non meri osservatori, e allora romanzi e racconti divengono i tasselli della storia. Non è una storia solo militare, ma uno strano racconto fatto di fughe, resistenza civile, opposizione, solidarietà e non collaborazione con i nemici, così da rappresentare quel quadro complessivo che si era formato nell’Italia occupata e che aveva abbracciato il movimento partigiano”. Il racconto si svela la forma ideale, per la concisione, per l’immediatezza e per la densità dei dettagli ed è collocato in un’ottica adatta a una svolta, dove “per uscire dalla fede e tornare coi piedi per terra possiamo partire dalla Resistenza che racconta, o meglio da quella particolare esperienza della resistenza che è il raccontare”. Ovviamente, le particolari condizioni in cui si è sviluppata questa letteratura sono ben evidenziate, a partire da quello che scriveva Alba De Céspedes nel settembre 1944, ovvero che “ogni energia intellettuale ha dovuto operare in zona d’aria condizionata, a prezzo di rientramenti, deviazioni, mutilazioni”. Ma in Fermammo persino il vento le storie sopravvivono proprio grazie alla qualità della narrazione e valgano, come esempi, il racconto di Angelo Del Boca, vivido e realistico nello stesso tempo o Calce sul muro scritto da Gino De Sanctis con lo pseudonimo di Partizan, che ricostruisce con metodica accuratezza un eccidio dei nazisti in ritirata. Gli eventi bellici sono una costante, ma in Fermammo persino il vento trovano posto anche amicizia e solidarietà e una tensione intellettuale nel cercare di comprendere uno sforzo stoico e generoso. La valutazione di Marco Codebò e Domenico Gallo è essenziale e, in sé, attualissima: “Chi sceglieva di combattere con i partigiani sapeva di certo contro cosa lo faceva, ovvero il fascismo e l’occupazione tedesca. Meno nitida era la cognizione del per cosa si combatteva, quale tipo di Paese uno si aspettasse di costruire attraverso la Resistenza. L’Italia libera era l’obiettivo chiarissimo sul livello ideale, ma meno nella sostanza, perché dopo vent’anni di dittatura nessuno aveva un’idea di cosa fosse davvero la libertà, di quali istituzioni la garantissero e di quali limiti la costringessero”. È un interrogativo che parte proprio da quei giorni, quando, con grande lucidità, Alba De Céspedes scriveva: “Il conto non può farsi oggi e del resto un certo pudore vieterebbe di farlo. Anche perché la partita singola prende corpo e valore solo se associata a quella degli altri. E gli altri, in questo caso, sono molti, e sconosciuti, e distanti. È il totale che conta, e non la cifra particolare. Ma la storia, invece, è fatta di particolari, dell’apporto minimo che ciascuno ha recato, del granello di fede, di speranza, di rischio, di tenacia che ciascuno ha bruciato”. Ecco, allora è validissimo il consiglio dei curatori di Fermammo persino il vento quando dicono che queste storie dovrebbero essere utilizzate “come un grimaldello con cui aprire a viva forza altri racconti della Resistenza per cavarci fuori quello che dovrebbe essere in realtà già visibile, nascosto com’è sotto l’evidenza”. Una lettura necessaria.