L’efficace lavoro di ricostruzione e assemblaggio curato da Michele Berti e Giulio Menegoni, oltre a offrire un ritratto a distanza ravvicinata di una personalità convinta della potenzialità degli studi, dell’approfondimento e dell’analisi, uno spaccato di un mondo che non c’è più, dove passione e rigore convivevano nell’attenzione alla vita quotidiana. Come spiega Giulio Menegoni nell’introduzione: “La lezione di Costa, così contesa tra la visione e l’equilibrismo, mostra l’irrequietezza di uno spirito perennemente insoddisfatto, costretto a coniugare la finezza dell’analisi con lo sconcerto dell’azione politica”. È in quel sottile frangente che irrompe il 1968, qui collocato nella giusta prospettiva dalla disquisizione di Gianpasquale Santomassimo: “A distanza di un cinquantennio il ’68 appare sempre di più un tornante, una data periodizzante, che fissa un prima e un dopo. Nella politica, nel costume, nelle mentalità, nel rapporto tra i sessi, nella musica, nel cinema, nell’arte. Non solo nella memoria di chi l’ha vissuto, ma anche di chi si dispone a valutarne l’impatto, qualunque sia il suo atteggiamento, critico o empatico di fronte all’evento”. Partendo dal presupposto che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”, Remo Costa segue l’evolversi di quell’anno traumatico con note pressoché giornaliere ribadendo con decisione che “come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione”. I due fuochi attorno a cui ruota l’ellisse delle riflessioni di Remo Costa nel 1968 (e in parte del 1969) sono l’invasione sovietica della Cecoslovacchia e l’insorgere dei movimenti studenteschi e giovanili nel mondo, a cui dedica un’attenzione costante, ma non fuorviata dall’ebbrezza e dalla spettacolarità del momento, avvertendo spesso e con sollecitudine che “c’è ancora disorientamento, troppi esprimono opinioni personali acritiche e spesso infantili. È conseguenza dell’abitudine agli interventi improvvisati senza esame approfondito della realtà, giudicando chi ha ragione e chi ha torto invece di esprimere valutazioni politiche”. È un dato ancora valido e, come spiegano i curatori, “tutto contribuiva a porre quesiti, a stressare la teoria, ad affinare la critica, a formulare ipotesi per riuscire a decifrare la complessità”. Molto originali e interessanti anche le sue valutazioni sull’allunaggio, e sulle diatribe del calcio, e dell’informazione che lo vedono particolarmente critico, quando dice: “Oggi in Italia, in particolare, il problema di fondo è cambiare la struttura socioculturale. La nostra stampa è piena di denunce su fatti concreti. Fa bene, ma è carente nel dare le prospettive avvenire per superare un costume connaturato”. La sua convinzione, non priva di fondamento, è che l’Italia resti “un paese semi-civilizzato”, dove “la vita scorre, l’uomo della strada non vede niente”, una constatazione che si allarga dalla condizione individuale a una visione più articolata della nazione e della società in sé. Sempre attento agli sviluppi internazionali e alle turbolenze finanziarie (lo studio dell’economia era uno dei punti fermi nella sua idea di formazione) Remo Costa ammette, sconsolato: “Solo l’Italia resta a guardare”. E non è che ci sia molto da vedere, come registra con un laconica appunto, appena dopo: “Allegra confusione, desolante misura di scarsa chiarezza. Lunga crisi di governo, le solite manovre”. Non è cambiato niente. Un congruo apparato di appendici, comprensive della bibliografia, di una dettagliata cronologia del 1968, di un indice biografico dei nomi nonché di un sintetico glossario completano, confezionati in un’elegante grafica, un libro che ha il coraggio di parlare di politica con cognizione di causa, e una rara dignità intellettuale.
giovedì 25 febbraio 2021
mercoledì 17 febbraio 2021
Paolo Paci
Un percorso dentro le montagne e nella storia della guerra (la prima guerra mondiale, e molte altre) si evolve in Un viaggio sentimentale dall’Isonzo al Piave. Quello di Paolo Paci ha l’aspetto di un pellegrinaggio, scevro però di ogni retorica e anzi predisposto, per quanto possibile, al confronto con la modernità. È un diario da “semplice viaggiatore” nelle terre di frontiera e negli anfratti del tempo dove “la storia si fa racconto, canzone, mito, infine si dissolve come manifesti che sbiadiscono al sole”. Caporetto è la boa, nello spazio e nel tempo, attorno a cui ruotano la percezione e i sensi di Paolo Paci. Se Franco Cogoli, fotografo e anfitrione veneto, sostiene giustamente che “la presenza della guerra è opprimente”, il territorio è il vero protagonista e il senso per i luoghi, dalle trincee alle osterie, dagli alberghi ai sentieri, dai ponti ai boschi, permea tutto l’itinerario di Paolo Paci. Il tono è cordiale e tiene conto degli incontri e delle frontiere, dei sapori e dei ricordi, allineando alla selezione di letture e visioni con Hemingway, Gadda, Lussu, Uomini contro di Francesco Rosi e La grande guerra di Mario Monicelli, gli assaggi enogastronomici tra Veneto, Friuli e Slovenia: i pesci, il formaggio, il vino. Gli intervalli conviviali servono anche a stemperare la tensione perché la mappa è costellata di massacri devastanti che hanno lasciato ferite indelebili nella terra. La ricostruzione dell’epoca attinge a numerosi fonti e testimonianze che concordano nel vedere come “si assiste a un paese che langue accanto a un paese che lavora freneticamente, e per ogni mille che perdono la casa o muoiono di inedia c’è un industriale, un politico, un faccendiere che accumula enormi capitali”. Una considerazione economica, sociale e politica del conflitto in cui è maturata la disfatta (e poi la riscossa) di Caporetto è inevitabile, ma poi di fronte ai cimiteri, ai memoriali e agli ossari, all’enormità di una strage insensata e spietata, Paolo Paci non può che inchinarsi alla maestosità di tanto dolore: “La guerra ha messo a nudo l’uomo. L’esperienza estrema della sofferenza l’ha privato di ogni orpello culturale, persino del nome proprio, riducendolo a uno scheletro (metaforico e no). Per questo la grande fossa comune del Grappa è significativa: il vero protagonista qui è il milite ignoto, che anche quando è nemico smette di essere nemico, e si dissolve e diventa tutt’uno con la montagna”. È un po’ il capolinea, a cui ci si arriva gonfi delle vicende di un’umanità che Paolo Paci sa raccontare con partecipazione, senza lasciarsi travolgere dalle emozioni e con lo sguardo capace di abbracciare i drammi personali, le piccole e grandi biografie, l’evolversi degli eventi bellici e i loro effetti sulle genti da una parte e dall’altra del confine e del fronte. È un bel vademecum che si addentra con garbo e con tatto su un crinale pericoloso, dove l’equilibrio è un requisito indispensabile alla condivisione del racconto perché, come scriveva Claudio Magris in Itaca e oltre, “la tragedia può abbattere e annientare gli uomini, ma non intacca l’integrità e l’unità della loro vita, non incrina le certezze del loro buon combattimento, non sminuisce la forza e la decisione con le quali essi mettono in gioco o sacrificano la loro persona; la tragedia può distruggere la vita, ma non il suo significato”. Caporetto è perfettamente allineato a questa distinzione per il suo afflato alla ricerca di un valore importante, che sia un gesto salvato dalla memoria, una frase in un libro o una pietanza consumata in solitudine, come se fosse possibile possibile una piccola riparazione, se non altro simbolica, a una devastazione secolare.