C’è qualcosa di shakesperiano in Edoardo, e non solo per via del nome. Il protagonista di Attesa sul mare coltiva i dubbi e le perplessità verso “un mondo di malinconia e di sforzi umani”, che ha come azimut la destinazione del suo ultimo viaggio da capitano. Deve portare una vecchia nave, l’Hondurian Star, da Saint-Malo a un punto non precisato delle coste bosniache. La missione è ambigua e foriera di presagi, non ultimo perché gli viene affidata a Tolone, nello stesso porto in cui, nel 1942, la flotta francese si è autoaffondata per non cadere nelle mani del nemico. Nella stiva c’è un carico di armi che aspettano di partecipare al massacro, l’ultima guerra civile europea sulle rovine della Jugoslavia. Al momento della partenza, Edoardo si lascia alle spalle il tormentato legame con Clara, l’amicizia con Giovanni, gli ulivi e le rocce e s’inoltra in un labirinto marino, guidato dall’astronomia. La natura della navigazione è furtiva: sulla superficie del Mediterraneo incombono scogli, correnti e portaerei che è necessario evitare perché “il mare è mare, ha una sua innocenza”, ma gli uomini hanno un’innata vocazione a tradirsi. Sull’Hondurian Star prevalgono allora i silenzi: le parole, nella babele di lingue di ufficiali e marinai, sono un impaccio e i gesti sono centellinati e tutti mirati a mantenere la calma e la rotta. Si scrutano le costellazioni, si versa un po’ di gin, si evitano le luci, si annusa il vento. L’Attesa sul mare trascorre nella condivisione di piccoli momenti, dopo il tramonto, prima nell’alba, nelle ore più umili della notte, quando la memoria diventa “un naviglio leggero” e, cogliendo il senso della traversata in tutti i suoi misteri e le sue difficoltà, Edoardo arriva a concludere che “La vita è vita, ci giochiamo una carta”. La voce di Francesco Biamonti collima con quella di Edoardo: è parca, essenziale, concentrata sulle luci, sulle ombre e sui riflessi, che sottolineano ogni frase. Nell’evenienza, può essere stridente o dolcissima, ma è ricamata su misura per i paesaggi non meno che per i personaggi di Attesa sul mare. Un’attenzione meticolosa che però non perde di vista un orizzonte più ampio, così come lo descriveva Francesco Biamonti in Scritti e parlati: “In realtà volevo provare se ciò che c’è di fondamentalmente umano, può tenere davanti al caos, agli odii storici contemporanei: cioè se l’uomo può contemplare o agire dentro queste situazioni mantenendo una visione del mondo antica, fatta di un umanesimo a volte tragico, a volte anche intimistico”. Il dilemma dell’Attesa sul mare è un riverbero di tempi sanguinosi: la guerra è “solo una malattia” da cui non si guarisce ed Edoardo è testimone di un’interminabile tragedia che Francesco Biamonti ha saputo accostare quella straordinaria premura, che lui stesso ha descritto così: “Rispetto agli altri libri Attesa sul mare tocca un punto più cruciale, e quindi mi è occorso maggior pudore, maggiore riservatezza, per non portare la scrittura al grado della cronaca, ma fare in modo che mantenesse la complessità poetica di una visione del mondo basata anche sull’umanizzazione di ciò che circonda gli uomini. Perché è destino umano abitare un mondo, ma è anche destino umano sognarne un altro”. Toccante.
mercoledì 30 gennaio 2019
sabato 26 gennaio 2019
Claudio Magris
Gli Alfabeti di Claudio Magris rispecchiano la sua propensione a vedere tutto come parte di un ampio movimento, a partire dalla considerazione che “la letteratura è un continuo viaggio fra la scrittura diurna, in cui un autore si batte per i propri valori e i propri dei, e quella notturna, in cui uno scrittore ascolta e ripete ciò che dicono i suoi demoni, i sosia che abitano nel fondo del suo cuore, anche quando dicono cose che smentiscono i suoi valori”. L’approccio critico e analitico è trasversale ai temi trattati dalla letteratura e le letture sono numerose e poliedriche: Salgari, Kipling, Cervantes, Borges, DeFoe, Camus, Novalis, Grillparzer, Kafka, Turgenev, Sologub, Kraus, Walser, Musil, Ibsen. Se la cultura mitteleuropea (“un mondo di ex e un mondo ex”) è la costante degli Alfabeti, compresi gli scrittori di Praga (Urzidil, Hrabal, Marek) il confronto con la tradizione anglosassone è altrettanto continuo (DeFoe, Melville, Faulkner). Gli Alfabeti radunano molte voci diverse e dissonanti che hanno in comune la forma del romanzo intesa da Claudio Magris come “il genere letterario dello stadio adulto, ossia della moderna età del lavoro, ed è la storia del rapporto fra l’individuo e i fini oggettivi del processo sociale, un rapporto visto ora come dolorosa antitesi fra poesia del cuore e prosa del mondo ora come conciliazione. Il romanzo è avventurosa conquista del mondo ma, molto più spesso, odissea del disincanto e della delusione”. Da Omero in poi, dentro quella cornice, per Claudio Magris “ogni scrittore conosce, più o meno intensamente, l’esperienza estraniante e creativa di quest’incontro con un sosia o almeno con una componente ignota o perfino sgradita di sé stesso. Se è un vero scrittore, la lascia parlare anche quando preferirebbe dicesse altre cose”. Magris ha il gusto, l’eleganza e la capacità di annodare ogni singolo libro all’idea di scoperta, di avventura che traduce nell’idea che “la vita è insieme questa fonda oscurità e questa luce fioca ma tenace. Le filosofie, le religioni, le articolate visioni del mondo devono responsabilmente scegliere tra queste due verità, pur facendo i conti con entrambe; devono dire se prevale la luce o la tenebra, se l’esistenza è illuminata da un significato o se è precipitare nell’abisso. La letteratura invece non ha doveri di coerenza ideologica, non ha messaggi da proporre né sistemi filosofici e morali da enunciare; può e deve rappresentare la contraddittoria esperienza del tutto e del nulla della vita, del suo valore e della sua assurdità. Per questo lo scrittore più grande è spesso quello che non sembra avere una filosofia e forse nemmeno una personalità precisa; come Shakespeare, è un nessuno che parla per tutti, dando voce alla disperazione come alla felicità”. Dalla lettura alla scrittura, il passo è, almeno per Claudio Magris, simultaneo, ma non indolore perché “scrivere, in certi casi, significa pure dar voce, anche senza accorgersene, a quelle esperienze che non sono state utilizzate e rielaborate nella consapevole costruzione della propria personalità e della propria visione del mondo, ma che sono rimaste dimenticate e sepolte in qualche sottoscala dell’anima, come materiali non adoperati per costruire o arredare la propria casa”. Neanche a dirlo, Claudio Magris preferisce gli outsider ai best seller e ricorda Vento sottile di Stefano Jacomuzzi o Dalla vita di un fauno di Arno Schmidt per non dire di Prima della fine di Ernesto Sabato e Aurora boreale di Drago Jancar, ma anche Chinua Achebe o Jamaica Kincaid come esempi del fatto che “la letteratura è manipolazione, falsificazione, imbroglio e menzogna, ma ciò che la fa vivere è la sua nostalgia della verità e della vita” e “cerca di coprire e addomesticare l’orrore originario della vita, ma contemporaneamente non può fare a meno di scatenarlo, squarciando sé stessa e la propria ordinata tessitura”. Gli Alfabeti di Claudio Magris sono, in effetti, piccole lezioni che, nella loro brevità, colgono però la letteratura in una posizione vitale, non accademica, non elitaria, ricordando, scrittore dopo scrittore, e romanzo dopo romanzo, che “forse la funzione di ogni arte, a differenza della filosofia o della religione, è quella di raccontare e rappresentare ciò che succede al cavallo che ci tira giù o meglio a noi quando lo lasciamo a briglia sciolta e lo seguiamo, non solo in disordinate ma forti passioni, bensì pure in vane astiosità, anche nelle invidie testimoniate da quegli insulti fra poeti, forse inevitabili nella debolezza umana”. La letteratura diventa così una mappa, un codice, quell’insieme di Alfabeti che spiegano, in modo molto pratico, come “un’idea, per essere efficace e agire sulla realtà, deve diventare un’energia. Infatti a un agorafobico non basta sapere razionalmente, per sfatare la sua angoscia e attraversare una piazza, che in essa non ci sono pericoli, ma ha bisogno che questa conoscenza sia divenuta sentimento spontaneo, vissuto con tutta la sua persona, anche con il corpo, e non solo con la mente. Questo vale per tutte le convinzioni, pensieri, stati d’animo e affetti di un individuo o di una collettività”. Come un naufrago che avvista qualcosa all’orizzonte e non sa se è un’isola o soltanto un miraggio ma, in ogni caso, non può fermarsi.
giovedì 17 gennaio 2019
Gianni Celati
Le note di viaggio che si sviluppano tutte attorno alla vita dei Gamuna nascondono, dietro lo sguardo etnografico e antropologico, e l’illusione di un popolo, o due, una forma di narrativa che torna ad essere strumento e mezzo di indagine, di comprensione, di conoscenza, se non altro un coraggioso tentativo di avvicinare “la grande allucinazione del mondo”. In questo processo, Fata Morgana ha solide radici nelle Avventure in Africa e non soltanto per gli orizzonti e i paesaggi che condivide, ma proprio per la stessa predisposizione a rincorrere “dietro soltanto a quello che non si è capito bene”. La fantasmagorica realtà dei Gamuna, che hanno una lingua che cambia intonazione e significati con il trascorrere della giornata, che sembrano schivare con innata naturalezza ogni tensione, e che coltivano pazientemente il gusto del paradosso (uno dei motti degli anziani Gamuna è: “Tutto quello che ti attraversa non sei tu, eppure tu sei solo quello”), si riflette, in un mirabile gioco di specchi, di ombre e di luci, con gli effimeri passaggi di un’altra civiltà, quella occidentale, quella cosiddetta moderna. Nella Gamuna Valley si presenta con una galleria variopinta di personaggi (Victor Astafali, Augustìn Bonetti, sorella Tran e tutti gli altri da scoprire tra le righe) che evocano colonie, missioni, avventure, studi e reportage insieme all’ombra, costante ed inquietante, di una guerra che non finisce mai. Separati simmetricamente, i due mondi guardano però nella medesima direzione, che è poi l’unica, come scrive Gianni Celati in un passaggio che è un po’ la chiave di volta di Fata Morgana: “Dicono che ognuno corre dietro a certe illusioni e nessuno può farne a meno, perché tutto fa parte d’uno stesso incantesimo. Dicono che alcuni miraggi sono mortali o procurano guai, altri danno l'impressione di soddisfare la fame o la sete, le voglie carnali o i sogni di gloria. E i miraggi del deserto sono particolari solo per questo: perché mostrano che inseguendo le illusioni ci si sbaglia sempre, e non c’è modo di non sbagliarsi, e la vita non è che un perdersi in mezzo ad allucinazioni varie”. A quel punto, il resoconto dei viaggi nelle terre dei Gamuna, un popolo immaginifico che è nello stesso tempo complesso e ingenuo, diventa qualcosa in più dell’occasione per il ritratto fedele di una varia umanità di outsider, viandanti, avventurieri, filosofi, soldati, sognatori e fuggitivi d’ogni specie, perché poi “ognuno va per la sua strada, poi ci si ritrova come sopravvissuti a epoche di buone amicizie, col pensiero d’essere rimasti fermi là con la testa, e quel che viene dopo è un epilogo”. Le storie, sembra di capire, sono l’unica mappa che può essere ancora utile a fuggire l’incubo della realtà e a coltivare l’illusione di esseri vivi, ma anche in quel senso Gianni Celati, forte dell’esperienza nel deserto, reale o immaginaria che sia, si mantiene a distanza di sicurezza: “Io non mi occupo dei miraggi degli altri. Lo so, lo so che ognuno ha i suoi, ma non sta bene farli notare. Altrimenti insorgerebbe l’altro miraggio di volerli curare, di voler estirpare un altro dalle proprie stravaganti illusioni”. La distinzione s’impone, i pensieri fermentano, l’avventura continua.